Ascoltando a Princeton il Ministro delle Finanze tedesco Christian Lindner, nell’occasione di una conferenza a metà aprile, mi è venuta in mente una definizione che viene usata spesso parlando di Germania. La Germania – si dice – è troppo grande per l’Europa e troppo piccola per il mondo. In parte è così: troppo grande per l’Europa significa che la Germania pensa spesso di potersi muovere da sola. Prendiamo il caso degli investimenti militari decisi dopo l’aggressione russa all’Ucraina, 100 miliardi di euro erogati in una logica nazionale e che Berlino peraltro non riesce a spendere. Se si mette insieme questa scelta e la pretesa francese di guidare comunque la proiezione esterna dell’UE, quale unica potenza nucleare e membro del Consiglio di Sicurezza dell’ONU, si capisce perché la difesa europea non possa funzionare. Lo stallo del vecchio motore franco-tedesco rafforza il problema.
Quando ho chiesto a Lindner se fosse d’accordo con il modo in cui Emmanuel Macron parla di “autonomia strategica europea” ha risposto seccamente di no: è una visione abbastanza ingenua, ha detto, e in parte ancora gollista. Se i due principali Paesi europei hanno concezioni distanti su un problema decisivo per il futuro dell’Europa – l’Italia su questo è molto più vicina alla Germania che alla Francia – è chiaro che la collocazione della UE nel mondo frammentato e polarizzato di oggi resterà problematica. La visione di Macron – l’Europa come “terza forza” fra USA e Cina, i due giganti di oggi – non prevarrà, e aggiungerei per fortuna. Ma l’Europa non avrà le capacità comuni e la visione strategica unitaria per impostare un rapporto più bilanciato con l’America, cosa che sarebbe più utile non solo a noi ma agli americani stessi.
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Veniamo all’altro polo del problema: una Germania troppo piccola per il mondo significa che, su scala globale, Berlino farà fatica a gestire un modello industriale che ha subito un duro colpo con la guerra in Ucraina. La fine delle forniture di gas a basso costo dalla Russia ha eliminato una dipendenza pericolosa. Il rischio è che si passi a un’altra dipendenza, quella dalla Cina, come dimostra la decisione di colossi dell’industria chimica tedesca (BASF) di aprire nuovi stabilimenti nella Repubblica Popolare per evitare i costi energetici dell’Europa. Un’altra parte dell’industria tedesca si muove verso l’America, cercando di avvalersi degli sgravi fiscali previsti dall’Amministrazione Biden per il settore dell’energia rinnovabile ”Made in USA”. Una terza parte resta in Germania, con il supporto di aiuti di Stato decisi su scala nazionale. Nell’insieme, visto che parliamo dell’economia determinante dell’euro, è una ricetta che non può funzionare da traino per la ripresa dell’economia continentale.
E in effetti la ripresa non c’è. C’è invece un aumento del gap fra le due sponde dell’Atlantico. Alcuni dati essenziali lo dimostrano, come ci ricorda un paper appena pubblicato da Jeremy Shapiro e Jana Puglierin per lo European Council on Foreign Relations. Nel 2008, appena prima della crisi finanziaria, l’entità dell’economia dell’UE era più o meno equivalente a quella degli Stati Uniti, anzi in leggero vantaggio: 16,2 trilioni di dollari verso i 14,7 americani. Nel 2022 il quadro è decisamente cambiato: oggi l’economia americana è più ampia di quella europea, inclusa la Gran Bretagna. È eccessivo parlare, come fa il paper appena citato, di “americanizzazione” dell’Europa. Ma se si aggiungono il fattore NATO (gli aiuti militari all’Ucraina, sostenuti in modo preponderante da Washington e Londra), il peso internazionale del dollaro rispetto a quello dell’euro e l’aumento del divario tecnologico fra USA ed Europa, la conclusione generale è che l’UE resti comunque, e più di prima, un “junior partner” di Washington. Da questo punto di vista, il ritorno della guerra nel Vecchio Continente ha aggravato il problema, invece che svegliare l’Europa sulla necessità di affrontarlo.
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Germania e Francia concordano, e questa è la posizione prevalente in Europa, che il cosiddetto “disaccoppiamento” fra le economie occidentali e quella cinese non sia né possibile né auspicabile. Janet Yellen, Segretario al Tesoro degli USA, è arrivata alla stessa conclusione: il decoupling sarebbe catastrofico per l’economia mondiale. E quindi l’America si concentrerà, in una logica di sicurezza nazionale, solo sulle tecnologie sensibili.
Macron ha tratto da questo dibattito, tuttavia, le implicazioni sbagliate dal punto di vista strategico. Il punto non è di cercare una finta equidistanza fra il regime cinese e la democrazia americana per affermare un’autonomia europea che non è sostenuta dalle capacità e dai numeri. Il punto è di rafforzare l’UE in quanto tale, per sfuggire a una debolezza strutturale che ci impedisce di avere un rapporto più bilanciato con il nostro principale alleato. Che a un certo punto – prima che poi – ce lo chiederà comunque, visto che tenderà a concentrarsi, invece che sulla sicurezza europea, sul teatro indopacifico.
Ma per andare in questa direzione, nella direzione di una Europa “euro-atlantica” rafforzata, è necessario che i Paesi centrali della zona euro – Germania, Italia, Francia – abbiano una strategia di crescita comune, invece di dividersi regolarmente. E che l’UE nel suo insieme investa in tecnologie, energia e difesa con fondi comuni: il “Chips Act” appena approvato è una scelta giusta di politica industriale, se verrà attuata. E’ anche indispensabile che esista, quando dovremo affrontare il problema della ricostruzione dell’Ucraina, una visione condivisa di politica estera, che garantisca il fronte Est senza lasciare un buco nel Mediterraneo. Vaste Programme, avrebbe detto il generale francese evocato da Lindner a Princeton. Io direi: vasto ma necessario, se l’Europa “euro-atlantica” vorrà esercitare il suo peso nel mondo di oggi.
*Una versione di questo articolo è stata pubblicata su Repubblica del 23 aprile