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Dopo Lisbona il gioco si fa duro

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Sono state settimane importanti, per l’Unione europea. Perché sono caduti due motivi di stallo. Primo, lo stallo tedesco. Angela Merkel, vinte le elezioni e sotterrata la grande coalizione con i socialdemocratici, tenterà di guidare l’Europa, mentre guida la Germania. Un’Europa che, per i suoi nuovi alleati di governo, i liberali tedeschi, dovrebbe concentrarsi sulle riforme economiche e fiscali, più che sulle magagne istituzionali. Poi è caduto lo stallo irlandese: dopo il sì di venerdì scorso sul Trattato di Lisbona, finisce anche l’agonia della quasi Costituzione europea.

Almeno si spera: per l’entrata in vigore di Lisbona, mancano ancora le ratifiche del presidente polacco e soprattutto del presidente della Repubblica ceca, l’euro-scettico Vàclav Klaus. Klaus ha fino ad oggi cercato di fare leva sull’opposizione inglese: di tirarla in lungo, cioè, fino al referendum britannico annunciato da David Cameron per il dopo Brown, per il dopo elezioni della primavera 2010. Ma con il sì irlandese, questo gioco al rinvio diventa difficile: la presidenza di Varsavia è orientata a firmare subito; quella ceca può ancora aspettare la sentenza della Corte costituzionale sulla congruità di Lisbona ma poi resterà isolata.

Tutto bene quindi? Fino a un certo punto. Consideriamo i fattori seguenti. Primo: il Trattato di Lisbona contiene alcune innovazioni importanti dal punto di vista del funzionamento delle istituzioni, ma non è certo un toccasana. Anzi, non è chiaro come potranno interagire il nuovo presidente del Consiglio europeo (forse Tony Blair, ma non è certo), il presidente della Commissione (Manuel Barroso) e il futuro Alto Rappresentante “rafforzato” (ancora Javier Solana per questi mesi iniziali e poi un popolare se Blair fosse la scelta per il Consiglio; se non lo fosse, una candidatura socialista diventerebbe pensabile). In sostanza: il vantaggio è la fine della riforma permanente delle istituzioni; il difetto è che si tratta comunque di un assetto istituzionale che non garantisce progressi in assenza di una volontà politica comune. Con l’entrata in vigore di Lisbona, il problema di fondo dell’Europa – la carenza di volontà politica comune – diventerà se non altro più chiaro.

Secondo fattore: l’Unione europea, per funzionare, ha sempre avuto bisogno di una leadership. Tanto più oggi, nell’Europa allargata a ventisette. Nella Politica estera e di Difesa – uno dei settori essenziali per la credibilità dell’Europa come attore globale – esiste ormai una leadership informale a Tre: Germania, Francia, Gran Bretagna. Basti guardare al negoziato sull’Iran. Il punto è che la probabile elezione di David Cameron a premier britannico, nella primavera del 2010, renderà Londra ancora meno cooperativa di oggi, sulle questioni del coordinamento europeo. Mentre aumenterà la tendenza di Francia e Germania a considerarsi ancora una volta come il motore europeo. Per l’Italia, si tratta di restare agganciata.

Secondo fonti dell’Eliseo, Parigi e Berlino starebbero varando un accordo strategico: passi congiunti sulla Difesa europea, sulla politica dell’immigrazione, sulle politiche industriali. Passi a due, ma volti ad influenzare gli accordi più generali europei su materie decisive per il futuro dell’Ue.

E veniamo così al terzo fattore: nelle dinamiche europee di oggi, la concertazione fra i governi nazionali – la loro interazione nel Consiglio – comincia a contare di più del metodo comunitario. Il vecchio equilibrio nel triangolo istituzionale si sta spostando verso il Consiglio europeo, a spese della Commissione. Il Parlamento europeo è sulla carta rafforzato, da Lisbona: ma continua a soffrire di un deficit di legittimità agli occhi dei cittadini europei.

Queste spinte non riflettono solo una ondata generale di “ri-nazionalizzazione”. Sono anche il prodotto di un dato di fatto: il metodo comunitario funziona relativamente bene nelle vecchie materie dell’integrazione europea (il mercato interno, anzitutto); non funziona altrettanto bene nelle nuove materie: dalla politica estera, alla sicurezza, all’immigrazione, si tratta di settori sensibili della sovranità nazionale.

Quella che stiamo costruendo, con il Trattato di Lisbona, non è quindi un’Europa federale. E’ un’ Unione di Stati nazionali, che hanno in parte ceduto sovranità (la moneta), in parte sono disposti a condividerla ma non a cederla, in parte la vogliono recuperare (con un rafforzamento del ruolo dei Parlamenti nazionali: va in questo senso la recente sentenza della Corte costituzionale tedesca su Lisbona).

Se lo scenario è questo, Lisbona servirà a regolare la vita dell’Unione a 27 un po’ meglio di quanto non sia avvenuto fino ad oggi. Ma sarà una sorta di cornice generale. Al suo interno, esisterà la pressione ad accordi ulteriori fra “chi vuole e ci sta” – e “sarà in grado” di esserci, soprattutto.

Francia e Germania tenteranno di dettare una parte rilevante dell’agenda. Entrambi i paesi sono ormai su posizioni “sovraniste”. La Francia perché lo è sempre stata. La Germania perché lo è diventata dopo che l’unificazione tedesca le ha permesso di riscoprire l’identità nazionale. Ma Parigi e Berlino sanno anche che, senza unire gli sforzi, i singoli paesi europei – per grandi che siano – sono destinati all’irrilevanza sul piano globale.