Cosa rimane a sinistra di Biden
Cosa è successo ai candidati della sinistra democratica, a Bernie Sanders e alla “berniesfera”, nel suo rapporto complicato con Joe Biden? La domanda è importante per immaginare il futuro del Partito democratico americano e i prossimi quattro anni. Ovviamente, le relazioni e i conflitti muteranno in base al risultato elettorale. Un redde rationem immediato e assai poco pacifico se Joe Biden perdesse le elezioni, un percorso meno accidentato e tutto da definire se invece avesse la meglio su Donald Trump.
Perché è importante occuparsene? Una eventuale presidenza Biden (i fan dell’ex vice-Presidente, se scaramantici, dovrebbero interrompere la lettura ora) porterebbe con sé un grande carico di domande politiche e sociali che arriverebbero – anche – dalla sinistra del partito democratico; la quale, nel frattempo, avrà fatto crescere la sua pattuglia di deputati (pochi, ma molto attivi e visibili) e chiederà un dividendo politico per aver sostenuto Joe Biden, nonostante la freddezza di una parte dei propri votanti.
Teniamo a mente il contesto che si configurerebbe nel caso di una vittoria di Biden, partendo da sette questioni che possono essere terreno di scontro o collaborazione fra la sinistra dei democratici e il resto del partito.
1 – La riforma sanitaria. I democratici vincerebbero sulla base del fallimento di Donald Trump nel gestire una crisi sanitaria, e si riaprirebbe il confronto fra i sanderisti e il resto del partito su quale riforma proporre. Pandemia e riforma sanitaria, cara a Sanders, sono legate anche perché le disparità di accesso alle cure adeguate hanno fatto la differenza nelle statistiche sulla mortalità da Covid).
2 – Il contenimento della diffusione delle armi. Su questo punto i membri democratici del Congresso esprimono posizioni diverse, soprattutto in base al territorio di provenienza: gli eletti democratici che vengono da zone più conservatrici tendono a essere meno contrari alla lobby delle armi.
3 – Diritti e welfare. Esiste una domanda di più diritti, più servizi e più giustizia sociale da parte delle minoranze e da segmenti specifici della popolazione. Non parliamo di rivendicazioni esclusive dei sanderisti, ma di temi sui quali si esprimono in modo credibile: pensiamo, per esempio, al tema del debito d’onore per gli studenti universitari, o la sanatoria per i migranti.
4 – Una legge nazionale per limitare la violenza ingiustificata della polizia. Esiste una forte aspettativa perché il Presidente si occupi a livello nazionale della riforma dei corpi di polizia, un campo nel quale sappiamo già esistere differenze di opinione fra la sinistra del partito e Joe Biden.
5 – L’imposizione fiscale. L’aumento del prelievo fiscale sulle corporation e sui patrimoni più alti, la riforma del sistema di tassazione: un “risarcimento” per l’America del lavoro dipendente che ha perso potere di acquisto e non ha mai guadagnato in termini di redistribuzione (welfare e salario); un tema che coinvolge anche la regolazione pubblica delle attività dei giganti del digitale, su cui si sono avute avvisaglie al Congresso – rese plastiche dello scontro pubblico fra Alexandria Ocasio-Cortez e Mark Zuckerberg in una Commissione della Camera – e sul quale Biden è assai meno radicale della sinistra dem.
6 – Il reshoring. Riportare a casa il lavoro manifatturiero, le industrie un tempo delocalizzate in cerca di manodopera a basso prezzo, una promessa dal sapore trumpiano che i democratici hanno fatto propria – anche in virtù della necessità di recuperare il voto della Rust Belt, perduto nel 2016 – e che è molto cara a Bernie Sanders. Fino a che punto un uomo con il passato di Joe Biden, che da Senatore non è mai stato certo un campione del protezionismo, potrà dare seguito a questa promessa? E’ fattibile?
7 – La crisi climatica. Su questo la sinistra del partito e una fetta importante di elettorato si aspettano una rottura assoluta con il passato recente, nelle scelte politiche ma anche nella definizione dell’agenda. A parole sono tutti d’accordo: gli incendi della costa Ovest hanno rafforzato il fronte ecologista; la Ocasio-Cortez ha trovato alleanze in Congresso per sostenere la sua versione di Green New Deal, c’è un movimento che sostiene lei e quell’agenda – il Sunrise Movement, un pezzo della galassia sanderista – ma su questo tema potrebbero nascere conflitti sia politici che generazionali. I giovani esprimono un’urgenza e una radicalità molto forte.
Che cosa abbiamo compreso da Biden in queste settimane di campagna elettorale, rispetto a questi temi e al rapporto con queste domande, di tono più radicale rispetto alla sua storia politica? Che la sua campagna è stata strabica. Non è piaciuto a Bernie Sanders il richiamo continuo ai valori comuni fra i democratici e i repubblicani stanchi di Trump (ha percepito sapore di centrismo anni ’90?), a cui è stato dato ampio spazio nella Convention virtuale di agosto; infatti, ancora oggi, Biden sembra faticare nel garantirsi il voto di molti giovani sanderisti. D’altro canto, la piattaforma elettorale è molto più radicale di quanto Biden non sia mai stato in tutta la sua vita. Una piattaforma che è stata frutto di un compromesso fra le anime del partito democratico che si sono confrontate durante le primarie: anzi, gli esperti chiamati a scriverla sono stati divisi con modalità da manuale Cencelli, con vere e proprie quote.
Il risultato? Una programma ambiziosissimo, alla Delano Roosevelt (un po’ troppo per essere credibile?) con un impianto decisamente “trasformativo”, che ci dice come Biden sia più un politico di compromesso che un politico fermo nelle sue convinzioni moderate. In fondo si è trattato solo di registrare la necessità di spostarsi a sinistra, per due ragioni.
La prima: l’elettorato democratico in questo decennio si è spostato nella stessa direzione, sia sulle questioni “morali” che su quelle economiche: Gallup ha monitorato i cambiamenti dell’elettorato democratico, e ha spiegato che i bianchi sono diventati più istruiti e più liberal, mentre gli elettori che appartengono alle minoranze – che fanno più fatica ad auto-definirsi liberal – esprimono anche loro radicalità sui temi economici. La seconda: dal punto di vista strategico, l’unità del partito e dell’elettorato, dunque la necessità di un ponte con la sinistra, veniva prima della caccia agli “stufi di Trump”, più moderati.
Se il successo però non arriva, si può immaginare che una vittoria di Trump trasformi questo partito democratico in una campo di macerie e di conflitti permanenti in vista del 2024. Una vittoria di Biden non allontana comunque lo spettro del conflitto interno, ma darà la possibilità a un Presidente di transizione – tale sarebbe Biden, che dovrebbe traghettare l’America fuori dalle secche della crisi Covid e della “rabbia bianca” che ha portato Trump a vincere nel 2016 – di gestire una fase turbolenta di crisi sociale e di grandi aspettative di cambiamento, non tanto per la Presidenza Biden in sé per sé, ma perché in tanti sentono la necessità di scrivere un nuovo patto sociale e politico, più inclusivo e attento all’America emergente.
Nel frattempo, come detto al principio, la berniesfera si è mossa con saggezza, dopo aver incassato l’impossibilità di puntare direttamente al Palazzo d’Inverno: tramite le sue organizzazioni collaterali – una fra tutte i Justice Democrats – aumenterà la sua pattuglia congressuale (il nuovo Ocasio-Cortez? il dirigente scolastico del Bronx Jamaal Bowman) e si consoliderà. Obiettivo: l’egemonia politica sul partito nei prossimi dieci anni.