international analysis and commentary

Contraddizioni cinesi

Articolo pubblicato sul numero 98 di Aspenia

1,047

Dalla primavera di quest’anno è in corso un vivace dibattito tra studiosi e policy makers su entrambi i lati dell’Atlantico circa le sorti del miracolo economico cinese. I dati confermati sul rallentamento strutturale della crescita economica cinese – dall’obiettivo del 5,5% a circa il 2% effettivo – sono stati accompagnati da sviluppi congiunturali che hanno ulteriormente peggiorato lo scenario: il ritorno dei contagi da Covid-19 e la conseguente politica di chiusure, gli effetti inflazionistici del conflitto in Ucraina e le tensioni tra Cina e Stati Uniti sullo status di Taiwan.

Sebbene il rallentamento in sé non sia il vero problema – semmai lo sono le sue cause – una decelerazione significativa dell’economia che ha maggiormente contribuito alla crescita globale negli ultimi 15 anni ha portato molti a interrogarsi sulla bontà del corso impresso al paese dalle politiche economiche promosse dal presidente Xi. La produttività è crollata, mentre il debito è aumentato. Le risorse idriche, alimentari ed energetiche scarseggiano. Il paese sta affrontando il peggiore crollo demografico della storia in tempo di pace: il risultato di dinamiche endogene difficilmente reversibili, che porteranno la popolazione cinese dai 1400 milioni di persone di oggi a 800 milioni nel 2100. Pare che il governo di Xi si stia avviando verso un rovinoso totalitarismo.

 

OBIETTIVO N. 1: MANTENERE IL POTERE DEL PARTITO COMUNISTA. Per fare fronte a queste molteplici sfide, il Partito comunista cinese sta perseguendo una strategia guidata da quattro obiettivi chiave: obiettivi politici che si reggono inevitabilmente su condizioni socioeconomiche favorevoli, e che costituiscono pertanto i fulcri dell’intera strategia di politica economica di Pechino.

In primo luogo, il PCC ha l’eterna ambizione di ogni regime autocratico: mantenere la sua ferrea presa sul potere. Dal 1949 in poi, il regime cinese si è sempre visto in lotta con nemici interni ed esterni. I suoi leader sono ossessionati dal crollo sovietico, la caduta di un altro grande Stato socialista. Sanno che il crollo del sistema guidato dal PCC sarebbe un disastro – probabilmente fatale – per loro stessi. Nella politica cinese, la paranoia è quindi una virtù piuttosto che un vizio. Come disse una volta Wen Jiabao, allora capo del governo cinese, “Pensare al motivo per cui il pericolo incombe garantisce la propria sicurezza. Pensare al perché del caos assicura la pace. Pensare al motivo della caduta di un paese ne assicura la sopravvivenza”.

Il PCC ha storicamente fatto di tutto per proteggere il proprio potere, facendo precipitare il paese nella follia durante la Rivoluzione culturale, uccidendo centinaia o forse migliaia di cittadini durante le proteste di Piazza Tienanmen nel 1989. L’obiettivo di perpetuare l’autorità del PCC è al centro di ogni decisione chiave. Lo scopo fondamentale di Xi è “assicurare il ruolo guida del Partito comunista in tutti gli aspetti della vita”.

Questo spiega la stretta normativa sui settori dell’istruzione, della finanza, dell’e-commerce e dell’immobiliare, tutti ambiti in cui l’emergere di grandi potentati privati metterebbe a serio rischio la capacità di controllo del Partito sul paese. Il modello del capitalismo di Stato, che finora ha avuto un grande successo, sta virando verso la riduzione del ruolo del meccanismo di mercato nel sistema economico. Nonostante il ridimensionamento del suo peso nella produzione e nell’occupazione, il settore statale resta infatti molto esteso.

 

LE GRANDI IMPRESE CINESI, QUASI TUTTE STATALI. Sebbene l’importanza delle imprese private sia enormemente aumentata in numero e rilevanza, a tutt’oggi molte tra le più grandi imprese cinesi sono ancora di proprietà pubblica. Ci sono ancora più di 150.000 imprese di Stato in funzione, per due terzi possedute dai governi locali e il resto dal governo centrale. Nell’indice msci relativo alle imprese cinesi, in alcuni settori (come l’energia) lo Stato rappresenta l’80% della capitalizzazione di mercato.

Nell’elenco delle 500 società più grandi del mondo stilato da Fortune, già nel 2014 67 su 69 delle imprese cinesi presenti era di proprietà pubblica. Nel 2016 le imprese cinesi nella classifica di Fortune sono diventate 98, con 13 nuove entrate: China Railway Rolling Stock Corp (al 266imo posto), China State Shipbuilding (349), China Vanke costruzioni (356), jd.com, secondo distributore online dopo Alibaba (366), China Aerospace Science and Industry (381), Dalian Wanda Group costruzioni (385), China Electronics Technology Group (408), New China Life Insurance (427), ck Hutchison Holdings (473), Midea Group (481), WH Group (495), Evergrande Real Estate Group costruzioni, (496).

 

Leggi anche: I costi economici del potere accentrato: l’era di Xi

 

Oggi le imprese cinesi presenti nel Fortune Global 500 sono ben 115, ponendo il paese al secondo posto dopo gli Stati Uniti con 132 società (e prima del Giappone, che ne ha solo 51). Dopo la statunitense Walmart, la società più grande del mondo, le tre successive sono cinesi – State Grid (seconda dal 2016), China National Petroleum e Sinopec Group.

Tutte le più grandi imprese cinesi sono pubbliche o a maggioranza pubblica, salvo che nel settore delle telecomunicazioni. Lo Stato ha ridotto il suo controllo diretto sulle attività economiche, ma continua a definire gli orientamenti strategici dello sviluppo attraverso lo strumento dei piani quinquennali e a conservare una forte influenza sul finanziamento degli investimenti attraverso un sistema bancario che è ancora quasi integralmente pubblico.

 

I CAMPIONI NAZIONALI. Le grandi imprese pubbliche sono da sempre lo strumento principale di intervento e controllo dello Stato sull’economia. Lo Stato mantiene la presa sui settori considerati strategici attraverso il controllo totale o maggioritario del capitale dei grandi gruppi che operano in ambiti in cui spesso i costi di entrata sono molto alti. Inoltre, l’osmosi tra il potere politico ed economico è da sempre evidente ai livelli più alti e gli incarichi direttivi delle grandi società statali derivano spesso da posizioni apicali nella sfera politica: gli alti dirigenti delle imprese di Stato cinesi sono nominati dal dipartimento del personale del pcc, con il contributo della Commissione per la Supervisione e l’Amministrazione delle Attività statali, sasac, operante sotto il Consiglio di Stato. I più importanti hanno un grado nel partito equivalente a quello di ministri o viceministri e spesso antepongono considerazioni politiche a criteri di efficienza aziendale.

Questo settore dà alle autorità il modo per portare avanti delle politiche industriali e attuare dei programmi volti a promuovere l’innovazione locale per sviluppare dei “campioni nazionali”. Oggi sono 97 (rispetto a 150 nel 2008) i gruppi societari più grandi di proprietà statale, che operano sotto il controllo del governo centrale e il cui capitale è detenuto dalla SASAC. Si tratta di gruppi di rilevanza nazionale con attività diversificate e non limitate ai soli ambiti di competenza, tra cui figurano le tre grandi compagnie petrolifere cinesi (CNPC, Sinopec, CNOOC), grandi società nel settore delle telecomunicazioni (China Mobile, China Unicom, China Telecom), la maggior parte delle società di produzione e distribuzione dell’elettricità e le compagnie aeree. Le altre imprese di Stato sono poste sotto il controllo dei ministeri o delle autorità (o della stessa SASAC) provinciali o locali.

Anche se le imprese private sono incoraggiate, le autorità riaffermano periodicamente la necessità che lo Stato, cioè il PCC, eserciti un controllo forte sui settori chiave, che possono comprendere l’industria chimica fino alla metallurgia passando per il settore delle automobili: i confini sono labili e soprattutto flessibili.

Oggi i segnali del governo sul corso futuro delle riforme delle grandi imprese di Stato non sono del tutto chiari. Se le recenti decisioni di Pechino di cedere quote rilevanti di proprietà pubblica a imprese private danno apparentemente avvio a un’effettiva apertura al capitale privato – dichiarata da tempo ma di fatto sempre evitata – in realtà questi nuovi sviluppi non solo non accelerano le riforme delle grandi SOE, ma sembrano invertirne la rotta. All’inizio del suo mandato nel 2013, Xi aveva dichiarato che la riforma delle imprese di Stato era una priorità nazionale e che avrebbe consentito alle forze di mercato di avere un ruolo importante nell’allocazione delle risorse nazionali. Ma il tema della riforma della struttura proprietaria delle imprese a favore di un maggiore coinvolgimento del capitale privato è a dir poco scottante. In evidente contraddizione con le sue stesse dichiarazioni del 2013, nel 2016 Xi ha ribadito ufficialmente l’importanza del principio politico del controllo del PCC sulle imprese di Stato.

 

IL CREDITO FAVORISCE LE IMPRESE DI STATO. L’espansione del potere statale sull’economia cinese e sul sistema politico sotto il presidente Xi Jinping può essere misurata in molti modi. Uno di questi è il drammatico spostamento del credito bancario dal settore privato a favore delle imprese statali, almeno fino al 2016. Questa inclinazione ha danneggiato il settore privato più produttivo, contribuendo al rallentamento in corso nella crescita della Cina.

Sfortunatamente, la Banca centrale cinese ha interrotto la pubblicazione dei dati che mostrerebbero se la politica di elargizione preferenziale del credito alle imprese statali persista o sia stata modificata. Anche altre agenzie governative hanno recentemente smesso di pubblicare una serie di statistiche che sono state a lungo utili per analizzare l’economia cinese. Non è chiaro se questa soppressione dei dati sia dovuta al fatto che le autorità desiderano nascondere informazioni su sviluppi economici sensibili o a qualcos’altro.

In assenza di tali dati della Banca centrale dopo il 2016, un’alternativa è quella di esaminare la crescita delle attività delle società non finanziarie statali. Il Consiglio di Stato cinese ha pubblicato i dati per il 2018, rivelando che le attività di queste aziende a fine anno ammontavano a 210,4 trilioni di RMB, equivalenti a oltre il 230% del pil cinese. Sicuramente, la crescita delle attività delle imprese statali è stata relativamente modesta fino al 2012, quando la maggior parte del credito bancario fluiva verso le imprese private. Da allora, tuttavia, la situazione è cambiata in favore delle imprese statali: tra il 2012 e il 2018, le attività delle società statali sono cresciute di oltre il 15% all’anno, ben oltre il doppio del ritmo di espansione del pil cinese e il doppio del ritmo di crescita della formazione lorda di capitale interno.

Per gran parte di questo periodo il rendimento delle attività delle imprese statali è diminuito, quindi gli utili non distribuiti per finanziare investimenti aggiuntivi sono stati bassi. Le imprese statali, almeno fino al 2018, hanno continuato a godere dell’accesso privilegiato ai prestiti bancari e al mercato nazionale delle obbligazioni societarie. In effetti, la crescita delle passività delle società statali ha eguagliato la crescita delle attività, cosicché il rapporto tra passività e attività nel 2018 è stato relativamente alto (0,64), lo stesso del 2012.

 

OBIETTIVO N. 2: RIUNIFICARE LA CINA. Il secondo obiettivo del PCC è rendere la Cina di nuovo unita, riconquistando i territori persi nelle precedenti epoche di sconvolgimenti interni e aggressioni straniere. La mappa della Cina di Xi include una Hong Kong completamente reincorporata nello Stato guidato dal PCC (un processo che è ormai largamente avviato) e una Taiwan riportata nelle mani di Pechino. Altrove, lungo la sua periferia, il PCC ha dispute di confine in sospeso con paesi che vanno dall’India al Giappone. Pechino rivendica anche il 90% del Mar Cinese meridionale, una delle vie d’acqua più vitali al mondo, come suo possesso sovrano. I funzionari cinesi affermano che non c’è spazio per un compromesso su queste questioni. “Non possiamo perdere nemmeno un centimetro del territorio lasciato dai nostri antenati”, ha detto Xi all’allora segretario alla Difesa statunitense James Mattis nel 2018.

È difficile che questo atteggiamento sia compatibile con una crescita pacifica, e men che meno con quella che si profila come una stagnazione (salvo l’emergere di nuove rivoluzioni tecnologiche, per esempio nel campo della transizione energetica, su cui infatti la Cina sta puntando con ingenti investimenti nei settori dei veicoli elettrici e delle energie rinnovabili, incluso il nuovo nucleare).

Secondo gli studiosi Hal Brands e Michael Beckley, autori di un recente saggio sulla competizione tra Cina e Stati Uniti[1], questa Cina farà molta fatica a superare gli Stati Uniti nel lungo periodo. Proprio per questo motivo, potrebbe essere più pericolosa nel prossimo futuro: la peaceful rise propagandata da Pechino negli ultimi quattro decenni sembra stia cedendo il passo a una Cina più aggressiva. Le potenze in ascesa diventano solitamente aggressive quando la loro crescita economica si indebolisce e si sentono accerchiate da nemici.

Il concetto di “ascesa pacifica” (Zhongguo heping jueqi) è una politica ufficiale emersa sotto la guida di Hu Jintao. Il termine rappresenta un tentativo di confutare la “teoria della minaccia cinese”. Il concetto di “ascesa pacifica” ha puntato a caratterizzare la Cina come un attore mondiale responsabile, enfatizzando il valore del soft power e sostenendo che il paese è impegnato nelle proprie questioni interne e nel miglioramento delle condizioni di benessere dei propri cittadini prima che interferire negli affari mondiali.

Tuttavia, l’uso del termine “ascesa” è stato considerato controverso da una parte degli osservatori occidentali, dal momento che la “ascesa” della Cina potrebbe di per sé costituire una minaccia per l’ordine internazionale consolidato. Pertanto, dal 2004, il termine è stato sostituito con “sviluppo pacifico” (Zhongguo heping fazhan). La necessità di elaborare un concetto di questo tipo è nata dal fatto che, come si è visto in passato, l’emergere di un nuovo polo di potere ha spesso portato a drastici cambiamenti negli equilibri globali e persino alla guerra, come ben spiegato dalla teoria della stabilità egemonica e da quella del realismo offensivo, in particolare nelle relazioni internazionali.

 

OBIETTIVO N. 3: L’EGEMONIA REGIONALE. Il terzo obiettivo del PCC è quello di creare una sfera di influenza regionale dominata dalla Cina. Pechino non immagina il tipo di dominio fisico che l’Unione Sovietica esercitava in Europa orientale durante la guerra fredda. Il PCC prevede piuttosto di utilizzare un mix di attrazione e coercizione per garantire che le economie dell’Asia marittima siano orientate verso Pechino piuttosto che verso Washington, che le potenze più piccole siano adeguatamente deferenti nei confronti del PCC e che gli Stati Uniti non abbiano più le alleanze, la presenza militare regionale o l’influenza politica ed economica necessaria per creare problemi alla Cina nel proprio cortile di casa.

 

Leggi anche: China’s paradox of power: consolidated at home, contested overseas

 

Come ha detto Xi nel 2014, “spetta al popolo asiatico gestire gli affari dell’Asia, risolvere i problemi dell’Asia e sostenere la sicurezza dell’Asia”. Altri funzionari cinesi sono stati ancora più espliciti. Tuttavia, oggi la diplomazia cinese ha maturato una qualche sensibilità politica in più rispetto al non lontano 2010, quando l’allora ministro degli Esteri Yang Jiechi disse a dieci Stati del Sudest asiatico che “la Cina è un grande paese e voi siete piccoli paesi, e questo è un dato di fatto”. Pechino preferisce ormai legami bilaterali molto stretti con un numero contenuto di paesi strategicamente più stabili e rilevanti – per esempio il Pakistan – rispetto a una pletora di paesi piccoli il cui appoggio si è dimostrato molto più instabile. Questo obiettivo si combina a una politica commerciale di maggiore autonomia dall’Occidente (il che significa riduzione delle importazioni a fronte di esportazioni sempre vivaci) e a una forte complementarietà con un ristretto numero di paesi ricchi di risorse naturali, con l’obiettivo di creare sul campo – oltre che a parole – una comunità di Stati dal destino comune, ossia collegati nei fatti da interessi economici.

 

OBIETTIVO N. 4: IL PRIMATO GLOBALE. L’ultimo obiettivo della strategia di Pechino si concentra sul raggiungimento del primato globale o per lo meno di un podio condiviso con gli Stati Uniti. I media di Stato e i funzionari di partito hanno spiegato che una Cina sempre più potente non può coesistere con un sistema guidato dagli Stati Uniti. È questo l’obiettivo ultimo del supporto cinese alla Russia dopo l’invasione dell’Ucraina, sul piano bilaterale e negli organismi internazionali: l’idea è di creare comunque un fronte comune che ridimensioni il peso dell’Occidente, in Asia e in Europa. La Cina continua così, e con maggiori leve rispetto al passato, a proporsi come portavoce del mondo in via di sviluppo, inclusi sia i grandi paesi emergenti, sia piccoli paesi poveri e indebitati: un fronte comune rispetto a un ordine internazionale che si ritiene penalizzi, a favore dei paesi ricchi del G7, la maggioranza di paesi poveri.

 

 


Nota:

[1] Hal Brands e Michael Beckley, Danger Zone: The Coming Conflict with China, W.W. Norton, 2022.

 

 


Questo articolo è stato pubblicato sul numero 98 di Aspenia