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Come la scienza, nell’era delle ‘fake news’, è diventata politica

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Donald Trump, un antivaccinista al potere? A giudicare da un suo tweet del 2014 qualche dubbio potrebbe sorgere: “un bambino sano va dal dottore, gli viene fatta un’iniezione con molti vaccini, non si sente bene e cambia – AUTISMO. Tanti casi del genere!”. Se Trump creda veramente che i vaccini facciano male o se invece si tratti di una delle sue provocazioni, poco importa. Più rilevante è che il tweet in questione è un perfetto esempio di due fenomeni strettamente collegati: da un lato la scelta del social networkpiù conciso come principale mezzo di comunicazione, che si inserisce perfettamente nella sua strategia retorica. Dall’altro, il tweet spalanca le porte su una questione più delicata: la scienza, nel 2016, è diventata politica. Si tratta di un tema all’interno di quello più generale delle fake news, l’utilizzo intenzionale di notizie false per confondere o disinformare il ricevente.

Sebbene non si tratti di una novità, il tema sembra però essere esploso nel 2016, quando la disinformazione è diventata materia politica e ha attirato l’interesse generale. Se già il referendum sulla Brexit ne aveva dato un assaggio, sono state le elezioni statunitensi ad aver visto il trionfo delle fake news  come arma di propaganda massiva.

Dall’accusa al padre di Ted Cruz (candidato alle primarie repubblicane) di essere responsabile dell’omicidio Kennedy,alle insinuazioni contro Hillary Clinton di nascondere un circolo di pedofili all’interno di una pizzeria, l’attuale presidente ha dimostrato di sapere beneficiare delle fake news emerse online in modo da screditare il suo avversario di turno. Con il risultato che, anche se le fake news non sembrano aver avuto da sole un impatto rivoluzionario sull’esito del voto, hanno comunque contribuito a inquinare l’atmosfera della campagna elettorale.

La “fake news” più condivisa del 2016

 

Si tratta di una questione non limitata agli Stati Uniti, ma che riguarda in maniera più generale il modo in cui, nel frammentato ecosistema contemporaneo, viene raccontato il mondo, tanto da far parlare di morte dei fattiUn termine forte che indica una cosa ben precisa: non che sia ormai impossibile distinguere in assoluto i fatti reali da quelli falsi o inventati; piuttosto, che quegli stessi fatti non sono più rilevanti.

In questa generale perdita di rilevanza dei fatti, i media possono avere una responsabilità importante, anche se solo in parte intenzionale. Dopotutto, notizie sensazionalistiche, esagerate o persino false sono sempre state all’ordine del giorno, nel mondo dell’informazione. Ma oggi l’ecosistema dei media è molto più grande e caotico: ai media tradizionali si sono affiancate migliaia di fonti alternative, che trovano diffusione grazie alle reti sociali. Dunque, i media tradizionali competono sempre di più per conquistare l’attenzione di un pubblico sempre più frammentato, “infedele” diffidente, da cui dipende il loro sostentamento economico. Allo stesso tempo, le notizie si moltiplicano e si diffondono sulle reti sociali fuori dal controllo dei tradizionali produttori e diffusori, perché sui social media ogni utente diventa un editore.

La combinazione di questi fattori può fare sì che, anche grazie alla formazione di echo chamber in cui si vede solo quello che pubblicano amici, conoscenti e persone dall’opinione simile alla nostra, alcune notizie si propaghino alla velocità della luce, a prescindere dalla loro veridicità. Anzi, molto spesso chi condivide di più sulle reti sociali risulta anche più disinformato dei fatti. Grazie alla loro plausibilità, e alla loro rispondenza alle ansie, alle paure, alle impressioni, ai preconcetti e ai desideri del pubblico che le recepisce, certe notizie nate come false diventano “vere”, almeno nel senso di essere convalidate dal senso comune.

Il problema appare particolarmente grave sui temi di scienza, come esemplificato dal caso dei vaccini. La complessità del tema, insieme alla sua centralità nella vita quotidiana, sono una combinazione perfetta che lo rendono ideale alla manipolazione. Così, un ”antivaccinismo” prende piede: anche tra chi razionalmente sa che i vaccini non possono causare l’autismo comincia lentamente a farsi strada il dubbio, alimentato dal volume di informazioni che confermano questo punto di vista.

Di nuovo, se i media non ne portano la responsabilità unica, hanno spesso creato un ambiente favorevole a questo fenomeno. Si veda la cosiddetta scienceploitationl’utilizzo di ricerche scientifiche in maniera approssimativa o fuori contesto, per catturare l’attenzione dei lettori. Articoli che danno rilevanza a tesi da “strano ma vero”, o che ancora peggio elevano a scienza delle trovate di marketing, stanno a testimoniare i pericoli inerenti nel dilettantismo di chi ha a che fare con l’informazione scientifica. Ma non è solo un problema di dilettantismo: la notizia divulgata dal giornalista scientifico John Bohannon, diventata virale, secondo cui mangiare cioccolato aiuterebbe a perdere peso, era fabbricata ad arte. Ma ha ottenuto un successo strepitoso, proprio perché ha colpito l’inconscio e i desideri dei lettori.

Questo aiuta a spiegare una delle ragioni della penetrazione delle fake news: dicono ciò che il pubblico vuole ascoltare. E si capisce anche il perché della loro resistenza alla smentita. Se la caratteristica della disinformazione è quella di rafforzare le convinzioni del ricevente, è facile capire come si crei un circolo vizioso, in cui ogni informazione alternativa viene percepita come falsa e la cui conseguenza è il paradosso presentato dal politologo Brendan Nyhan: le campagne pubbliche istituzionali di comunicazione a favore della versione scientifica sui fatti non riusciranno a convincere il loro “target”. Anzi, il pubblico che ha creduto alle fake news si arroccherà ancora di più nella sua credenza, vedendo l’intervento esterno istituzionale come un’altra prova del complotto per nascondere la realtà dei fatti.

Gli effetti del fenomeno non restano sul terreno dello scontro di opinioni, ma diventano tangibili. A livello politico può accadere quando le elezioni sono vinte da candidati che fanno strame dei fatti grazie a un insieme di wishful thinking e a un’offerta politica che procede per allusioni più che per programmi. E a livello scientifico, quando l’amplificazione delle false storie sui vaccini causano una recrudescenza di malattie come il morbillo in Italia, in California o in Portogallo.

La disinformazione è un tema profondamente politico, e come tale va affrontato. Senza scomodare relazioni di causalità, i vaccini e la propaganda di Donald Trump non sono due questioni separate, ma sono facce della stessa medaglia. Eppure, non esistono soluzioni immediate: gli sforzi di maggiore e migliore comunicazione scientifica, o un controllo più rigoroso sulle dichiarazioni dei politici, per quanto meritori, non riescono a rompere le bolle di informazione. Anche le proposte di legge per limitare la libertà di espressione su internet con il motivo della lotta alle fake news rischiano di fare più male che bene.

Le soluzioni più realistiche devono partire dall’ecosistema. In questo senso, un buon inizio è rappresentato dalla stretta annunciata da Facebook e Google contro la diffusione di fake news attraverso le loro piattaforme: una mossa con cui i due giganti della tecnologia sembrano voler rispondere alle critiche e abbracciare almeno parzialmente il loro ruolo di editor. Anche i media hanno possibilità di manovra: quelli più seri e autorevoli, per rimanere tali, sembrano aver capito che invece di seguire le regole acchiappa click, devono rimarcare la loro differenza rispetto a chi sparge disinformazione, puntando al rigore e alla qualità, anche se questo vuole dire in parte ridurre gli introiti economici nel breve periodo.

Il vero cambiamento, però, può avvenire solamente coinvolgendo gli utenti e i destinatari dell’informazione. Nel lungo periodo, la soluzione necessariamente passa per una maggiore consapevolezza da parte di ciascun individuo del valore di ciò che viene condiviso sulle reti sociali. Ciò riguarda solo marginalmente la politica; molto più importanti diventano l’istruzione diffusa e una maggiore capacità collettiva di discernere il reale dall’inventato. Più facile a dirsi che a farsi, certo.

Eppure, la via maestra potrebbe essere indicata proprio dai social media. Come testimonia la recente discussione in Italia sul programma televisivo “Report” e i benefici dei vaccini avvenuta sul profilo Facebook di Roberto Burioni, noto medico che da anni si spende in favore dei vaccini, anche le reti sociali – in quanto strumento – possono essere utilizzate per creare possibilità di confronto e aggregazione, comunicando in modo più efficace verità scientifiche.

Per sconfiggere le fake news, quindi, la prima regola potrebbe essere imparare a utilizzare meglio i loro mezzi preferiti di diffusione. Forse, così si potrà impedire in futuro di avere un  antivaccinista al governo. O quantomeno instillare sempre un sano dubbio nei leader politici.