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Come cambia il Medio Oriente dopo un anno di guerra

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Una frase attribuita a Lenin recita che “ci sono decenni in cui non accade nulla e settimane in cui accadono decenni”. Il Medio Oriente contemporaneo non è mai stato un angolo di mondo avaro di materiale per il lavoro di giornalisti, analisti di geopolitica e commentatori di cronaca internazionale. Eppure, gli ultimi dodici mesi fanno apparire gli anni precedenti come un tempo quasi vuoto, di bonaccia prima che si alzasse il vento della tempesta.

La regione è entrata in una stagione nuova della sua storia a seguito del brutale massacro perpetrato da Hamas il 7 ottobre di un anno fa in territorio israeliano. Gli eventi di oggi sono sempre il portato di quelli di ieri. Come un sisma rilascia con violenza e in poco tempo l’energia accumulata per decenni nelle profondità del sottosuolo, così gli attuali equilibri mediorientali, da sempre fragili e precari, subiscono scosse che sono il risultato di tensioni con radici ben piantate nel terreno. Le potenze regionali e i rispettivi sponsor internazionali sono impegnati in un confronto, che sembra avere caratteri ultimativi, per la ridefinizione dei rapporti di forza e senza escludere improvvisi colpi di scena come nella più sofisticata pièce di teatro.

Un minareto caduto tra le rovine di Gaza

 

Gli obiettivi strategici iraniani e il “fronte della resistenza”

Fino a poche settimane fa, sembrava che l’Iran fosse riuscito nell’impresa di riunire attorno a sé una coalizione di attori sufficientemente solida, nota come asse o fronte della resistenza, per accerchiare Israele e costringerlo a vivere in una condizione di insicurezza e allarme perenni. Pur evitando il confronto diretto – fatta eccezione per le azioni di rappresaglia, più scenografiche che concrete, con droni, missili e razzi di aprile e inizio ottobre – l’obiettivo di Teheran era di chiudere lo Stato ebraico in una morsa. I suoi proxy si erano dimostrati molto efficaci per il raggiungimento dello scopo perché strumenti più versatili e flessibili rispetto alle forze ufficiali controllate dal regime iraniano, nonché capaci di tenere costantemente sotto tiro il nemico. La loro esuberanza si è progressivamente ingigantita quanto più Israele si è trovato impantanato nell’operazione militare a Gaza seguita al 7 ottobre, senza riuscire a sradicare Hamas né a riportare a casa tutti gli ostaggi, nonostante la devastazione del territorio e le migliaia di vittime civili.

Il fronte della resistenza, pur presentando contraddizioni interne dovute alla coincidenza soltanto parziale tra gli obiettivi strategici del regime degli ayatollah e le agende dei suoi satelliti, dà un’immagine plastica delle ambizioni egemoniche della Repubblica Islamica. E cioè la volontà di creare una vasta area d’influenza – una sorta di “crescente sciita” esteso dai confini con il Pakistan e l’Afghanistan fino alle coste mediterranee di Libano e Siria – ai danni non solo dello Stato ebraico, ma anche delle monarchie sunnite del Golfo e, in modo parziale, della Turchia. Obbligare Israele a preoccuparsi continuamente e a investire risorse ed energie per la sua sopravvivenza serve poi a Teheran per accrescere il suo potere negoziale nella faticosa ricerca di un modus vivendi con gli Stati Uniti. Dopo il ritiro dall’accordo sul nucleare del 2015 deciso da Donald Trump, la Repubblica Islamica è soffocata dalle sanzioni economiche volute dall’Occidente e punta quindi a ridurne la portata. Anche perché i sacrifici e le restrizioni patiti dalla popolazione, a lungo andare, rischiano di fornire il carburante per proteste in grado di mettere a repentaglio l’esistenza stessa del sistema teocratico in piedi dal 1979, ma ciclicamente percorso da grandi movimenti di dissenso.

L’impossibilità di giungere in tempi brevi a un compromesso con Washington e le velleità egemoniche di un regime che, per quanto sui generis, si considera erede della millenaria tradizione imperiale persiana, hanno suggerito a Teheran di puntare lo sguardo su Israele. La Repubblica Islamica non ha mai fatto mistero di voler cancellare “l’entità sionista” dalla carta del Medio Oriente e, approfittando del colpo subito dallo storico nemico per mano di Hamas, ha percorso con maggiore convinzione e determinazione la strada della pressione sul “piccolo satana” per indurre il suo protettore americano ad adottare posizioni meno intransigenti nei suoi riguardi. D’altronde, l’irrisolta e sempre più incancrenita questione palestinese offre nella regione un carburante ideologico e umano sufficiente da riversare contro Israele. Anche perché gli alleati russo e cinese, principali contestatori nel primato globale degli Stati Uniti, si sono mostrati incapaci o poco propensi a sostenere in maniera concreta Teheran nelle sue rivendicazioni.

 

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Lo Stato ebraico si è trovato, in ogni caso, accerchiato e costretto a fronteggiare minacce provenienti quasi da tutte le direzioni. Perfino gli Houthi dallo Yemen sono riusciti a colpire il porto di Eilat nel Golfo di Aqaba e a esercitare stabilmente una pressione indiretta, prendendo di mira il naviglio mercantile in transito per lo Stretto di Bab el Mandeb e il Canale di Suez. Hamas ha certo subito un colpo durissimo sul piano militare, dal quale difficilmente potrà riprendersi. L’eliminazione della maggior parte dei suoi comandanti e leader politici, compreso Ismail Haniyeh, ucciso a fine luglio mentre era in visita nella capitale iraniana, richiederà molto tempo per recuperare le posizioni perdute.

Ciononostante, il movimento politico-terroristico che governa Gaza dal 2007 non è stato sradicato e mantiene un certo grado di legittimazione tra i palestinesi, che lo vedono come l’unico attore capace di opporsi agli israeliani. Inoltre, la Cisgiordania resta una polveriera che rischia di esplodere in ogni momento e spazzare via la sempre più evanescente presenza dell’Autorità Nazionale Palestinese guidata dal vegliardo Abu Mazen, mentre l’insediamento dei coloni israeliani continua più intenso che mai. A tutto questo, si aggiungono le formazioni sciite minori attive in Siria e in Iraq, che contribuiscono a dare supporto logistico, facilitando i collegamenti di terra tra l’Iran e il Levante e fornendo manodopera per la realizzazione di infrastrutture strategiche come depositi di armi e cunicoli a ridosso del territorio israeliano.

 

Il fronte libanese e le mosse di Hezbollah

Il più pericoloso dei vicini dello Stato ebraico è però Hezbollah, che resta il principale vassallo non statuale della Repubblica Islamica e il pezzo più pregiato della collezione di organizzazioni riunite nell’asse della resistenza. Il partito-milizia sciita ha notevolmente migliorato le sue capacità militari e offensive dopo la guerra contro Israele dell’estate del 2006. In quell’occasione, i bombardamenti aerei e navali furono accompagnati dall’invasione israeliana di parte del Libano meridionale, che vide scontri molto aspri tra le forze dello Stato ebraico e i miliziani di Hezbollah, arroccati in postazioni ben fortificate e collocate in un territorio meglio conosciuto rispetto ai nemici nonché circondate da una popolazione amica nel suo territorio. Il ritiro degli israeliani fu presentato come vittoria garantita a tutto il Libano proprio dagli sforzi e dal coraggio dei combattenti del “Partito di Dio”, che sfruttò il prestigio acquisito per rafforzarsi e radicarsi nella società locale fino a diventare una sorta di Stato parallelo.

Il sostegno dell’Iran ha permesso a Hezbollah di migliorare negli anni la sua preparazione militare, anche mediante la costruzione di infrastrutture più efficienti per tenere sotto pressione il nord di Israele e attraverso un più completo addestramento dei suoi miliziani portato avanti da personale inviato da Teheran. Le risorse economiche trasferite dalla Repubblica Islamica giocano poi un ruolo determinante nel mantenimento di un sistema di welfare che fa capo a Hezbollah, integrando e sostituendo parzialmente i servizi erogati dallo Stato libanese. Si tratta di un significativo strumento di consenso nelle mani del Partito di Dio per assicurarsi il favore di una popolazione prostrata dal collasso economico del Libano, di cui Hezbollah è causa e conseguenza.

Proprio verso il Paese dei Cedri si è spostato recentemente il fronte principale del conflitto. C’è da dire che, durante le prime settimane dell’intervento israeliano a Gaza, Hezbollah ha soppesato con attenzione il suo coinvolgimento, nonostante la retorica incendiaria, e non ha aperto un fronte settentrionale, né lanciato un’invasione di Israele da Nord, come invece molti nei territori palestinesi e altrove stavano sperando. Il rischio di vedere compromessi anni di sforzi profusi nella costruzione di fortificazioni, magazzini e cunicoli in tutta l’area a sud del fiume Litani (area dove è tuttora schierato il contingente ONU UNIFIL2) nonché gli arsenali faticosamente accumulati con l’aiuto iraniano hanno indotto inizialmente i dirigenti del Partito di Dio a una certa cautela. Nello stesso tempo, la volontà di compiacere Teheran e motivazioni squisitamente interne, come la conservazione del potere e della presa su parte della società e delle istituzioni libanesi, hanno suggerito all’organizzazione di mostrarsi reattiva e desiderosa di accreditarsi ancora di più come una colonna portante del fronte della resistenza. Anche perché, agli occhi della leadership di Hezbollah, era intollerabile che i più lontani e meno equipaggiati Houthi yemeniti rubassero loro la scena con i droni diretti verso Eilat e la destabilizzazione di una delle principali rotte marittime del commercio mondiale.

 

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Gli attacchi dal territorio libanese verso l’alta Galilea avevano assunto, per una sorta di accordo non scritto tra i contendenti stipulato già prima del 7 ottobre, i connotati di un botta e risposta, con azioni offensive di vario tipo, quali il lancio di razzi o l’attacco a postazioni fortificate o centri d’ascolto israeliani lungo la linea di demarcazione tra i due Paesi. A tali azioni seguiva una risposta sostanzialmente uguale e contraria, spesso associata all’uccisione dei miliziani che si ritenevano autori materiali dell’operazione. La novità dell’ultimo anno sul fronte libanese sta nell’accresciuta frequenza degli scambi di fuoco tra le due parti del confine de facto. La maggiore penetrazione in territorio israeliano dei droni e razzi di Hezbollah è un tratto distintivo delle operazioni più recenti, anche se è ormai quasi un anno che alcune decine di migliaia di abitanti della Galilea sono stati obbligati a evacuare i villaggi e le campagne più esposti al fuoco nemico.

Una veglia in ricordo di Nasrallah a Sidone, in Libano

 

La progressiva definizione dei fini strategici israeliani

La svolta nell’approccio dello Stato ebraico alla minaccia proveniente dal nord è diventata evidente nel corso dell’estate. In realtà, già dai primi mesi dell’anno in corso, il comportamento di Israele denota un cambiamento complessivo nel gestire la sfida lanciata dall’Iran e dai suoi alleati. Lo shock del 7 ottobre e l’irresistibile impulso a vendicare il sangue versato hanno trovato sfogo nell’invasione di Gaza e nella violenza dell’operazione militare, che però non sono riusciti a sradicare Hamas né ad assicurare il pieno controllo della Striscia. Lo stallo nelle operazioni non è stato causato soltanto dalla difficoltà ad avanzare in un territorio densamente popolato, con i gruppi armati palestinesi che non esitano a usare i civili e le loro abitazioni come scudi o rifugi. Ha pesato forse ancora di più l’assenza di obiettivi strategici. Per diverse settimane, Israele ha faticato a reagire perché colto di sorpresa e insicuro su come affrontare il rischio esistenziale inaspettatamente materializzato ai suoi confini.

Solo in un secondo momento, la riflessione all’interno della politica, degli ambienti di governo e degli apparati nonché della società civile, nonostante le sue fratture interne, ha prodotto l’individuazione di opportunità strategiche da cogliere tramite azioni incisive e di più ampio respiro rispetto alla sola guerra a Gaza o a iniziative di sola valenza difensiva. Lo Stato ebraico è giunto alla conclusione che, anche se in maniera certamente non intenzionale, Hamas ha aperto la strada a qualcosa di molto più grande del ritorno della questione palestinese all’ordine del giorno della vita internazionale.

Il momento è stato giudicato adatto per regolare i conti, possibilmente in maniera definitiva, non solo con i palestinesi, ma anche con l’Iran, il suo principale alleato Hezbollah e le altre formazioni minori. Il governo israeliano la considera un’opportunità, ma questa visione comporta un rischio notevole e non privo di conseguenze imprevedibili fino al momento in cui si palesano davanti agli occhi di tutti. Perché una cosa è mantenere i nemici vicini e lontani entro una soglia di pericolosità accettabile e gestibile. Ben altra cosa è arrivare ad agire considerando possibile un cambio di regime a Teheran e la debellatio dei suoi accoliti. Solo presupponendo l’esistenza di tali considerazioni si può spiegare la reattività di Israele degli ultimi mesi del primo anno di guerra, mancante subito dopo il 7 ottobre tranne che nella furia rovesciata su Gaza. L’aumento della sofisticazione e della pervasività delle operazioni di intelligence nonché dei raid in Libano, Yemen e Siria sono coerenti con la svolta strategica ormai evidente.

 

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Come già in passato, lo Stato ebraico trova negli omicidi mirati di dirigenti e alti funzionari delle organizzazioni avversarie una via privilegiata d’azione. Mai però queste azioni sono state portate avanti con la frequenza di questi mesi e prendendo di mira personaggi apicali degli apparati nemici. Hassan Nasrallah è solo il più eclatante e ultimo in ordine temporale degli esempi che possono essere citati. È inverosimile che, da quando assunse la carica di segretario generale e guida spirituale di Hezbollah nel lontano 1992, i servizi di informazione israeliani non abbiano mai saputo o ipotizzato con una certa sicurezza la collocazione degli infiniti nascondigli in cui Nasrallah si rifugiava. Ma soltanto adesso il momento è stato giudicato favorevole alla sua uccisione come parte di un piano che ha praticamente annientato la dirigenza del Partito di Dio.

Un discorso simile vale per i vertici di Hamas e, sebbene su una scala molto diversa, con le decine di ufficiali dei Pasdaran e di altri corpi militari e paramilitari diretta espressione della Repubblica Islamica in tutto il Medio Oriente. Tali omicidi hanno inferto durissimi colpi soprattutto a Hezbollah, nonostante il livello superiore ad Hamas in quanto a preparazione e risorse disponibili. Anche perché chi sostiene la rapida e facile sostituzione dei comandanti eliminati non tiene conto che questa è applicabile soltanto quando le perdite non assumono frequenza e numeri come quelli attuali tra le fila di Hezbollah o Hamas. I bombardamenti di infrastrutture indispensabili per gli attacchi a Israele, di vie di comunicazione, centri logistici, depositi di munizioni, armi e carburante vanno di pari passo e completano l’offensiva.

 

I rischi enormi di una partita al rialzo

È in corso dunque una pericolosa partita al rialzo la cui posta in gioco è la ridefinizione dei rapporti di forza in Medio Oriente. Gli equilibri nella regione sono sempre stati instabili, ma l’intensità dello sforzo di tutti gli attori coinvolti per cambiare a loro favore lo status quo non ha probabilmente eguali nella storia contemporanea di questa parte del mondo. La carneficina del 7 ottobre dell’anno scorso ha soltanto fatto da scintilla all’incendio di una polveriera che si stava riempiendo da troppo tempo.

Chi ancora parla di “rischio di una guerra regionale” in Medio Oriente evidentemente non si rende conto che un conflitto è già in atto. Sembra il momento del redde rationem dopo decenni di minacce, scontri e intese mai rivelatisi definitivi. Il problema è che, almeno per il momento, nessuna delle parti appare nella condizione di prevalere sull’altra. Se, fino a poco fa, l’Iran valutava le possibili concessioni e le contropartite da discutere con gli americani in cambio di una diminuzione della pressione su Israele, ora è Teheran a essere in difficoltà. L’indebolimento dell’alleato libanese seguito alla morte di Nasrallah e all’uccisione o al ferimento di tanti dirigenti usando i cercapersone e le radio trasmittenti come cariche esplosive è un duro colpo per la Repubblica Islamica. Che è indotta a reagire, spinta dalla sua stessa essenza politico-ideologica, come ha fatto la sera del 1° ottobre con il lancio di circa 200 ordigni volanti verso lo Stato ebraico, in una spirale di violenza sempre più fuori controllo.

In questo momento, nessuno è disposto a prendere in considerazione l’ipotesi di addivenire a un’intesa. Tutti sono collocati su posizioni massimaliste, temendo di mettere a repentaglio la propria sopravvivenza e nella convinzione che trattare adesso sarebbe percepito come segno di debolezza. Ciononostante, solo una soluzione politica può fermare la spirale della violenza, che rischia di sfuggire di mano in qualsiasi momento portando solo altri lutti e sciagure di proporzioni sempre maggiori.

Respingere con chiarezza qualsiasi ipotesi implicante la cancellazione di Israele non significa ignorare il fatto che l’Iran, indipendentemente dal regime al potere a Teheran, deve essere parte dei futuri assetti del Medio Oriente. La guerra chiama solo altra guerra, anche se la forza armata è impiegata per ristabilire una deterrenza inevitabilmente contingente. La portata di quanto accade in questi giorni va ben al di là dei Paesi coinvolti, ma anche dello stesso Medio Oriente: la ridefinizione della mappa della regione, data la sua posizione geografica e gli interessi in gioco, non potrà che avere ripercussioni globali.