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Cinquanta sfumature di impero

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A prima vista, analizzare il concetto di sovranità cinese sembra un compito facile. Il copione è il seguente: la Cina, paese non occidentale, ha subìto l’imposizione del concetto di sovranità e delle norme internazionali dell’Occidente sotto le mentite spoglie del libero scambio – vedi la clausola della “nazione più favorita”, al cuore dei Trattati Ineguali di metà xix secolo. In tal senso, la Cina ha sperimentato la sovranità innanzitutto come proiezione degli interessi occidentali – una forma di imposizione extraterritoriale – corroborata da nozioni di diritto internazionale importate sempre dall’Ovest. C’è stato poi l’ulteriore vulnus inflitto dal Giappone, il primo e migliore discepolo asiatico dell’Occidente: il paese era intento a costruire un proprio impero alle porte del mondo occidentale, e conosceva il diritto internazionale abbastanza bene da usarlo come strumento per legittimare la propria espansione. A tutt’oggi la contesa territoriale sulle isole Senkaku/Diaoyutai si gioca su quel fronte, con il Giappone che rivendica le sue ragioni sulla base del diritto internazionale mentre la Cina insiste sul principio di legittimità storica.

L’impero Qing (dalla prima parte del XVII secolo fino al 1912) annoverava forme di suzeraineté1 su entità vicine, confermate mediante il sistema tributario, anziché un concetto di sovranità di Stati-nazione paritari. Non c’era stato un Trattato di Vestfalia, né la Cina era propriamente una nazione; si trattava piuttosto di un’unione di cinque nazioni-razze sotto l’imperatore manciù. La prima Repubblica cinese post-imperiale fu fondata su quell’unione plurinazionale: il “nazionalismo” in quanto tale non esisteva. In realtà, la parola che indica il nazionalismo corrisponde al nostro patriottismo (aiguozhuyi). Il termine Minzuzhuyi, che si riferisce al nazionalismo dopo i “Tre Principi” di Sun Yat-sen, è un concetto moderno e piuttosto ambiguo, dato che minzu allude anche alla razza e alle minoranze (oggi la Repubblica popolare cinese ne riconosce 56).

La bandiera della dinastia Qing

 

C’è da ricordare che alla fine della Prima guerra mondiale il Trattato di Versailles trasferì le concessioni tedesche al Giappone, provocando così la più grande rivolta culturale cinese dell’età contemporanea (il Movimento del 4 maggio 1919).

Alla luce di tutto ciò, è facile comprendere come la politica culturale cinese sia sostanzialmente in linea con la tradizione postcoloniale: i cinesi considerano la sovranità un concetto occidentale di mera copertura di conquiste e interessi. Anche nell’era repubblicana, e soprattutto sotto il Partito comunista, la Cina ha sviluppato una visione difensiva e assolutista della sovranità, coniugando la supremazia dello Stato sul suo territorio con il pieno controllo giurisdizionale e un’identità culturale improntata alla nozione di etnicità cinese e all’eredità confuciana.

 

LE NUOVE REGOLE DEL GIOCO. In tutto ciò la Cina non è stata un caso isolato. Anzi, il primo a reagire fu proprio il Giappone: come ebbe a dire negli anni Venti un famoso diplomatico nipponico, “l’Occidente giocava a poker, ma quando ci siamo seduti al tavolo è passato al bridge”. Gli anni Venti e i primi Trenta del secolo scorso furono segnati dal contrasto tra la partecipazione del Giappone alla società internazionale e le sue visioni darwiniste di un universo in cui la ragione è del più forte, e la chiave del successo è stata una politica estera avaloriale. Anche la Cina è stata influenzata dal darwinismo sociale. Da un lato, la Repubblica cinese ha formato diplomatici competenti e capaci di perorare la propria causa presso la Società delle Nazioni. Dall’altro lato, ha lottato con le unghie e coi denti per abolire le concessioni internazionali assurte a emblema dei Trattati Ineguali con l’Occidente: l’atto finale fu firmato da Chiang Kai-shek nel 1942, grazie all’alleanza bellica con l’America di Franklin Delano Roosevelt.

Ma le culture politiche del 2020 seguono il retaggio storico di un secolo fa? Per un’analisi controfattuale, è illuminante la lettura dell’articolo sulla sovranità in Cina nell’enciclopedia online più popolare nel paese, Baidu. Non c’è traccia di autori né fonti cinesi, ma Jean Bodin, Thomas Hobbes, Jean-Jacques Rousseau e le Nazioni Unite figurano in bella vista. L’articolo pone l’accento sull’autorità statuale e sull’integrità territoriale quali princìpi cardine della sovranità, ma ricorda pure che la Dichiarazione francese dei Diritti dell’Uomo e la Dichiarazione d’Indipendenza americana indicano nei cittadini la fonte della sovranità, e che le Nazioni Unite hanno creato un meccanismo che limita la sovranità nazionale degli Stati con regole vincolanti.

Baidu avrebbe potuto citare anche il rivoluzionario Sun Yat-sen o Kang Youwei, il celebre riformatore della tarda dinastia Qing, che elaborarono nozioni differenti di sovranità. Le loro filosofie erano basate sul popolo (nel caso di Yat-sen, che di fatto equiparava la sovranità popolare a una forma di democrazia) o sui valori culturali (nel caso di Youwei, che esaltava i valori cinesi dell’armonia legati al confucianesimo, ma non circoscritti a esso). La fine dell’era Qing e l’inizio di quella repubblicana videro in effetti fiorire molte associazioni culturali o assistenziali – quelle che oggi chiameremmo ong – le quali portarono il loro messaggio anche all’estero, in primis tra gli Huaqiao (la diaspora cinese), fornendo aiuti e promuovendo iniziative religiose o settarie.

La società civile cinese era più eterogenea e incline alla filantropia di quella giapponese. E questo ha il suo peso nel dibattito sulla sovranità, perché mette in luce il retaggio di valori cinesi. Oggi potremmo definirlo “soft power cinese”. La stessa Cina repubblicana, però, vi ravvisava una forza antagonista al potere statuale e un rischio politico per il regime2.

 

LA VISIONE RETROATTIVA. Spostando l’attenzione sulla Repubblica popolare, si nota un fondamentale elemento di continuità, ma anche qualche importante cambiamento. Il costante richiamo alle umiliazioni e alle invasioni del passato si accompagna a una definizione retroattiva di sovranità e Stato-nazione. I Qing che sono usciti dai canoni vengono tacciati di inettitudine, passività e negligenza, o addirittura di tradimento dell’interesse nazionale (al contrario di certi eroici mandarini). Date le potenziali pretese di antica memoria, non sorprende che le rivendicazioni territoriali e di integrità territoriale siano in cima all’ordine del giorno. Un esperto indiano ha osservato con una battuta che anche il suo paese potrebbe rivendicare gli odierni Iran e Afghanistan in virtù della storia degli imperi Maurya e Moghul.

L’irredentismo – una nozione tutta italiana, figlia dalla vicenda di Trieste – è un termine che ben si addice alle smisurate rivendicazioni storiche cinesi. La Mongolia figura tra queste, così come parte dell’ex Unione Sovietica (oggi a cavallo tra la Russia e gli Stati indipendenti dell’Asia centrale). C’è poi il caso dello Stato indiano dell’Arunachal Pradesh, mentre alcune pubblicazioni cinesi hanno sollevato la questione della “linea dei nove punti” nel Mar cinese meridionale (il ministero degli Esteri cinese ricorda regolarmente, ma troppo vagamente, che quell’area non è rivendicata nella sua interezza). Lasciando da parte le episodiche pretese sul Monte Paektu (al confine con la Corea del Nord), più o meno le stesse rivendicazioni sono avanzate da Pachino su Taiwan: l’elemento comune, a ben vedere, è una prova di fede nell’idea di una futura riunificazione cinese.

Tuttavia, con l’integrazione della Repubblica popolare nel sistema delle Nazioni Unite, e i nuovi interessi legati alla crescita economica e ai rapporti internazionali di Pechino, l’ago della bilancia si è spostato. L’era del riformismo cinese – avviato nel 1978 e giunto di fatto a conclusione tra il 2007 e il 2012 – ha visto un’ampia adesione alle norme internazionali: dalla fondamentale accettazione di molte (ma non tutte) delle convenzioni ONU a una serie di leggi e regole più concrete, volte a favorire il commercio e gli investimenti internazionali nel paese.

Questa svolta è coincisa con l’ingresso e l’ascesa dell’influenza della Cina nel sistema internazionale, con ciò intendendo non solo le istituzioni onu, ma anche le organizzazioni globali e regionali. Il che di tanto in tanto ha comportato un totale capovolgimento del suo approccio alle norme internazionali. La Cina è per esempio diventata un paladino dei diritti degli investitori internazionali, anche attraverso le vie legali. E sul versante della navigazione marittima, pur mantenendo una posizione difensiva (basti citare l’obbligo di preavviso di “passaggio innocuo” per le flotte), è la prima a rispettare le leggi in vigore.

L’integrazione della Cina aveva anche suscitato grandi speranze che il paese sposasse la causa degli obiettivi della governance internazionale post guerra fredda, dalla tutela dei diritti umani alla questione climatica e ambientale. Di particolare importanza è stata la firma – tra il 1984 e il 1997 – di alcuni fondamentali trattati per la limitazione delle armi, oltre alla ratifica della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS) nel 1996. Anche all’apice del suo percorso di integrazione internazionale, tuttavia, Pechino ha posto dei limiti alle concessioni a potenziale discapito della sua sovranità. Il più evidente, al netto del realismo, è che le concessioni devono sempre rispecchiare gli interessi diretti cinesi (come nel caso dei negoziati per l’ingresso nell’Organizzazione mondiale del Commercio – WTO).

Ma c’era anche una limitazione di carattere più generale: la Cina assumeva impegni, ma era restia a consentire qualsiasi forma di controllo internazionale sugli stessi. Un caso emblematico è quello degli accordi sul clima: la conferenza COP15 del 2009 a Copenaghen si è arenata proprio su questo aspetto, e l’accordo cop21 di Parigi è andato in porto solo perché non comportava obblighi giuridici né verifiche in loco.

 

SOVRANITA’ 2.0. In ogni caso, quel trend si è interrotto. Oggi la Cina persegue un modello di sovranità che riflette il dogmatismo e le precauzioni dell’era precedente o si rifà ad ambizioni da grande potenza, anche egemoniche. Il cambio di rotta si ripercuote su quasi tutti gli ambiti.

Scolare in piazza Tien An Men per un evento ufficiale nel 1973

 

Il sistema politico-giuridico cinese – a partire dalla Suprema Corte del Popolo – antepone la giurisdizione nazionale al diritto internazionale. La Repubblica popolare, storicamente refrattaria alle corti internazionali di arbitrato commerciale, ha ora istituito i suoi tribunali per i contratti legati alla Belt and Road Initiative (BRI). Diverse leggi nazionali, in particolare sulla cybersecurity, rivelano l’aspirazione a un’influenza extraterritoriale – non solo sulle minoranze cinesi all’estero (come già visto fino agli anni Settanta) ma anche sui non cinesi, laddove le loro iniziative incidono sulle questioni di sicurezza interna. La procedura di arbitrato UNCLOS è stata aggirata. L’internazionalizzazione della valuta cinese – che avrebbe comportato la revoca della maggior parte dei controlli sui capitali – è stata bloccata: l’accettazione dello yuan come valuta di riserva dell’FMI, decisa nel 2016, riflette gli affannosi tentativi delle istituzioni internazionali di cooptare il paese, più che un balzo in avanti dei leader cinesi.

Inoltre, la partecipazione della Cina alle Nazioni Unite e relative agenzie è mutata nelle prerogative al mutare del livello di coinvolgimento. La Cina è un protagonista molto più attivo in tutte quelle sedi, e un grosso contributore finanziario (anche se di solito ciò dipende da parametri prestabiliti). Ma la diplomazia cinese ha profuso molte più energie per creare una base di consenso alla sua visione internazionale. E quest’ultima è orientata proprio a tutelare ed esaltare la sovranità statuale a discapito di qualsiasi “interferenza” internazionale. Ciò vale per la questione dei diritti umani come per le sanzioni internazionali o le decisioni relative al dispiegamento e all’utilizzo di contingenti di peacekeeping sotto l’egida delle Nazioni Unite. Per di più, la Cina ha promosso a ogni piè sospinto il suo armamentario concettuale e lessicale riferito alla comunità internazionale, puntando su espressioni spesso direttamente ispirate agli slogan di Xi Jinping: “costruire una comunità dal futuro condiviso”, “un nuovo modello di relazioni internazionali”, “sviluppo per la promozione dei diritti umani”, per non parlare dei memorandum e delle parole d’ordine della BRI.

Molto di tutto questo, al pari della promozione degli standard cinesi nelle organizzazioni tecniche, può essere considerato un’inevitabile conseguenza dell’ascesa cinese tra le grandi potenze, ma altrettanto inevitabili sono le conseguenze per il sistema delle Nazioni Unite. Lo si è visto con estrema chiarezza all’inizio dell’epidemia di coronavirus, nei primi mesi di quest’anno, quando i vertici dell’Organizzazione mondiale della Sanità (WHO) hanno convalidato pubblicamente i proclami della Cina – e in particolare la negazione della trasmissione umana del virus – nonostante i ricercatori della stessa WHO sapessero benissimo che la verità era un’altra. Ancora lo scorso agosto le autorità cinesi hanno impedito a un gruppo di ispettori WHO l’accesso a Wuhan, dove il virus ha avuto origine, il che la dice lunga sull’aperta ostilità a qualsiasi forma di controllo internazionale sul territorio cinese.

Solo due paesi asiatici non sono mai stati pienamente colonizzati, e la Cina è uno di questi. Nel XIX secolo però essa ha subìto l’imposizione extraterritoriale della sovranità occidentale, e ha dovuto fare i conti – spesso a proprie spese – con il diritto internazionale: la sua visione totalizzante e intransigente della sovranità nasce come reazione a quell’esperienza. Anche il fattore identitario è cruciale: quello che era uno Stato plurinazionale doveva enfatizzare la sua “cinesità”, e ha mantenuto un atteggiamento padronale nei confronti di quanti identifica come appartenenti all’etnia cinese.

Ciò non toglie che la Repubblica popolare cinese abbia fatto molte concessioni di sovranità tra il 1978 e il 2001, anno in cui fu ammessa nel WTO. Concessioni che sono state spesso inquadrate nell’ottica di un continuo processo di integrazione internazionale, ma col senno di poi andrebbero considerate un diretto corollario delle esigenze di sviluppo del Dragone. Quel processo si è annacquato a partire dal 2001, ed è lecito affermare che sotto Xi Jinping – dal 2002 la massima autorità cinese – abbia cambiato completamente rotta. La riluttanza ad accettare nuovi impegni o accordi vincolanti, l’affermazione del sistema politico-giuridico cinese anche oltre i confini nazionali e il modello di influenza nella cornice delle Nazioni Unite sono tutti elementi che denotano un nuovo trend: anziché perseguire un cammino di integrazione con le prassi e le norme internazionali, la Cina sta tentando di modificare o limitare queste ultime in funzione del proprio concetto di sovranità.

 

 


1 Il diritto di un paese di controllarne parzialmente un altro.

2 Si veda Prasenjit Duara, “Transnationalism and the predicament of sovereignty: China, 1900-1945”, in The American Historical Review, vol. 102, n. 4, Oxford Academic, ottobre 1997.


 

*Questo articolo è tratto dal numero 90 della rivista Aspenia