Biden e il difficile senso degli europei per l’Europa
Da questa parte dell’Atlantico, forte è la tentazione di considerare la vittoria di Joe Biden come il ritorno al vecchio ordine, alle vecchie dinamiche: negli USA, ma soprattutto in riferimento ai rapporti con il resto del mondo, e in particolare con l’Europa. Ma proprio cedere a questa tentazione, oltre che fallace, sarebbe invece fatale per il destino degli europei.
I vestiti nuovi dell’imperatore e la wishlist americana per l’Europa: commercio, diplomazia, tecnologia
L’epoca del multilateralismo sotto il compiacente sguardo del gendarme statunitense (garante, nel bene e nel male, dell’ordine di un mondo unipolare) non tornerà. Da un lato, infatti, il consolidamento della potenza cinese, resa ancor più manifesta nell’anno della pandemia, pone le premesse, semmai, per lo sviluppo di un nuovo bipolarismo; dall’altro, gli stessi Stati Uniti si trovano indeboliti nel fronte interno, con larghe fasce di popolazione in sofferenza, tanto da far precipitare il consenso per il “ruolo imperiale” del paese, in favore di scelte politiche che puntino prima di tutto a risolvere i problemi nazionali: Trump non sarà più Presidente, ma il trumpismo è vivo e vegeto.
Certo, Biden ha dichiarato che, all’indomani dell’insediamento, rientrerà nell’accordo di Parigi sul clima, certamente rientrerà anche nell’Organizzazione Mondiale della Sanità, e verosimilmente verrà superato lo stallo di quella del Commercio (WTO) imposto da Trump attraverso lo stop all’elezione dei nuovi componenti dell’organo d’appello. L’amministrazione Biden avrà probabilmente anche un diverso atteggiamento nei confronti dell’Iran anche se pare sarà difficile possa rientrare nell’accordo sul nucleare alle condizioni originali[1]. Ma questa revisione multilateralista non tragga in inganno: nell’approccio alle relazioni internazionali, le forme della nuova amministrazione saranno profondamente diverse da quelle del predecessore, ma molto poco cambierà nella sostanza.
L’attenzione degli Stati Uniti continuerà ad essere puntata sull’Asia, e, con la Cina, Biden potrebbe essere anche più duro di Trump, sommando alle controversie commerciali il fattore della difesa dei diritti umani, secondo una logica strategica a più ampio spettro. Lo stesso avverrà probabilmente anche nei confronti della Russia.
Ciò implica anche che sul fronte europeo Biden non smetterà di pretendere un maggiore impegno dagli alleati, di fronte ad una situazione generale che vede ancora lontanissima (per la maggior parte di essi, a partire da Germania e Italia) la soglia dell’investimento del 2% del PIL nella Difesa fissata in ambito NATO.
In ambito commerciale, è improbabile che la guerra di dazi continui sui toni esasperati in cui l’aveva incanalata Trump, ma la necessità di rafforzare il settore industriale nazionale e ricostruire la relativa offerta di lavoro, danneggiate dagli effetti negativi della globalizzazione, non sparirà con lui. Basti pensare al settore automobilistico, in cui le tensioni commerciali tra USA e Germania non sono certo un’invenzione trumpiana, e a quello alimentare – al centro anche del fallimento del TTIP, il trattato commerciale con l’Europa arenato nel 2016. Del resto, il scorso 10 novembre l’UE ha reso effettivi dazi su una lista di prodotti USA per un totale di 4 miliardi di dollari: la risposta europea ai dazi americani imposti da Trump su una serie di prodotti UE nel quadro del contenzioso per aiuti di Stato tra Boeing e Airbus. A queste si sommano le questioni di tassazione dei giganti digitali come Amazon, Google o Facebook e la “carbon border tax” – certamente spinose per rapporti tra le due sponde dell’Atlantico.
Ma accanto e forse più di questo conta il fatto che all’Europa verrà chiesto di schierarsi senza incertezze dalla parte degli Stati Uniti nel confronto con Cina e Russia: gli USA non possono permettersi che il vecchio continente faccia gioco a sé. Tra le implicazioni, innanzitutto la richiesta di diminuzione delle attività commerciali con la Cina e il raffreddamento dei rapporti di collaborazione. Gli ultimi anni, mentre a Washington cresceva la spinta anti-cinese sia tra i Repubblicani che tra i Democratici, hanno visto i paesi europei rafforzare almeno di fatto i propri legami con Pechino: il primo partner commerciale della Germania è diventata la Cina, sostituendo da quest’anno gli Stati Uniti, e si è registrata l’adesione ufficiale di vari paesi dell’Europa centro-orientale e dell’Italia al progetto delle Nuove Vie della Seta. Per analoghi motivi geopolitici, è difficile che Biden non continui a vedere con irritazione la realizzazione di Nord Stream 2, il gasdotto tedesco-russo che certifica un legame difficilmente scindibile, economico, politico e strategico, tra Russia e Germania, e quindi tra Mosca e il cuore dell’Europa.
La parte principale della partita geostrategica dei prossimi anni si giocherà però sulla supremazia tecnologica, e, come dichiarato da Henry Kissinger in un’intervista riportata da Repubblica lo scorso 10 novembre, è indispensabile che Stati Uniti ed Europa trattino le relazioni sino-americane in parallelo. Sino-americane, non sino-occidentali; e facendo gli interessi degli Stati Uniti – è bene che sia chiaro.
La possibile autonomia strategica europea e le contraddizioni nell’Unione
Questa la cifra delle nuove relazioni transatlantiche quindi: all’Europa viene richiesta da parte USA una limpida scelta di campo, pretendendo da essa molto, ma dandole assai poco.
Proprio le intemperanze di Trump, invece, e le difficili relazioni transatlantiche degli ultimi quattro anni (se si escludono i paesi del gruppo di Visegrad), avevano portato a un brusco risveglio della consapevolezza delle cancellerie europee della necessità di sviluppare un’autonomia strategica e – complice anche la pandemia, che tra le sue ricadute vede la tendenza alla valorizzazione delle catene del valore intra-continentale – a un passo in avanti nella definizione dell’UE come soggetto unitario partecipe della dialettica internazionale.
Si pensi alla prossima presentazione del Digital Service Act (prevista per il 3 dicembre), un pacchetto di misure con cui la Commissione europea ha l’ambizioso obiettivo non solo di regolare l’attività dei grandi oligopolisti della rete cercando di riaprire il mercato alla concorrenza, ma anche di rendere le piattaforme online responsabili per i contenuti condivisi dagli utenti, a tutela, in definitiva, della democrazia. In riferimento al 5G, poi, Bruxelles – e in particolare il commissario francese Thierry Breton al Mercato Interno, impegnato sui diversi fronti della sicurezza strategica europea – vuole assicurarsi che il potenziamento delle autorità nazionali di controllo, che dovrebbero sviluppare standard di sicurezza che permettano la resilienza di tutto il sistema anche attraverso il ricorso a fornitori differenziati di tecnologie.
Proprio la Francia, insieme alla Germania, è poi al cuore di Gaia-X, un progetto cui partecipano oltre 100 aziende europee (di cui 28 italiane) e molteplici istituti di ricerca che dovrebbe dar vita, già l’anno prossimo, al primo cloud europeo per la conservazione dei dati: infrastruttura fondamentale ed irrinunciabile per qualunque tentativo di autonomia strategica. Sempre su spinta franco-tedesca, a settembre Breton ha presentato il Piano d’azione UE per le materie prime critiche, che mira a assicurare l’autonomia dell’UE per l’approvvigionamento di quelle materie prime necessarie alla realizzazione del Green Deal e di uno sviluppo tecnologico indipendente.
Ancora, nell’ultimo anno molto si è lavorato in Europa intorno al modellamento di una strategia industriale volta alla competizione globale. Da questo punto di vista, la pandemia ha segnato un punto di svolta significativo: da un lato i fondi di Next Generation EU, ottenuti tramite obbligazioni europee, dovranno essere destinati in parte alla transizione verde (37%) e in parte al digitale (20%); dall’altro, è stata colta l’occasione per cominciare a smantellare il sistema europeo della normativa sugli aiuti di Stato, che tagliava le gambe allo sviluppo di campioni nazionali in grado di competere su scala internazionale. Da ultimo, la cooperazione strutturata permanente istituita nel settore della difesa a fine 2017, pur non avendo palesemente ancora reso il vecchio continente autonomo sotto questo profilo, costituisce un forum di continua elaborazione.
Di fronte a questi sforzi, paradossale pare la grande ritrosia al ricorso, in casa europea, a quegli strumenti di politica fiscale ed economica che caratterizzano ogni attore globale. In che modo possono essere perseguiti obiettivi di sovranità europea se resta il rischio costante di crisi economiche scatenate da crisi dei debiti sovrani dei singoli Stati? È necessario che la governance economica dell’Unione, dimostratasi completamente inadeguata nell’ultimo decennio, muti radicalmente, e che alla BCE vengano assegnati i normali poteri di cui dispone qualsiasi banca centrale in qualità di prestatore di ultima istanza. Lo statuto della Banca Centrale Europea non può più indicare come unico obiettivo la stabilità dei prezzi.
Eppure la discussione delle ultime settimane in materia si è sviluppata da un lato intorno alla data di rientro in vigore delle regole del Patto di stabilità; dall’altro, già ad inizio novembre si rincorrevano voci circa una fronda “nordica” tra i governatori delle Banche centrali nazionali, appoggiata dal governatore tedesco Jens Weidmann, che vorrebbe abbandonare il programma di acquisto di titoli anti-crisi pandemica (PEPP) per un ritorno al programma precedente (APP), sottoposto a regole più stringenti, tra le quali l’obbligo di rispetto della cosiddetta capital K (limite degli acquisti pro quota per stato membro). L’obiettivo di una simile operazione sarebbe quello di obbligare di fatto gli Stati membri più in difficoltà a fare ricorso ai prestiti europei – da quelli di Next Generation EU al quelli del MES sanitario.
L’elastico tra Bruxelles e Washington
Perseguire obiettivi di sviluppo di autonomia strategica e di attore geopolitico è palesemente incompatibile con blocchi e divisioni di questo tipo sul piano interno. Non a caso il Presidente francese Emmanuel Macron, sostenitore dello sviluppo di una vera e propria sovranità europea, è anche colui che, oltre a impostare gli sviluppi sopra indicati, ha spinto in maniera decisiva la Germania di Angela Merkel alla svolta che ha portato all’accordo di luglio.
La Francia è, in effetti, l’unico Stato europeo che non ha mai abbandonato vocabolario e aspirazioni da potenza compiuta; proprio per questo l’Eliseo vive con malcelato fastidio la vittoria di Biden, che eliminando lo spauracchio-Trump potrebbe avere l’effetto di bloccare lo sviluppo di una sovranità europea. Ma Macron ha anche ormai chiaro che, da sola, Parigi va poco lontano. Senza l’appoggio e l’accordo del campione economico dell’UE ogni passo in questo senso rischia di rimanere insufficiente: la Germania è fondamentale.
La Germania, dal canto suo, ancora prigioniera dei fantasmi della Seconda guerra mondiale, rischia di non dimostrarsi all’altezza del ruolo che la congiuntura storica le richiederebbe. In occasione delle elezioni americane Annegret Kramp-Karrenbauer, presidente uscente della CDU e ministro della Difesa – colei a cui, fino a poco tempo fa Angela Merkel avrebbe voluto passare il testimone – ha definito l’autonomia strategica dell’UE un’illusione a cui sperava che la vittoria di Biden avrebbe messo fine. La stessa Merkel ha di fatto governato l’UE negli ultimi anni con il fine di tenerla unita sotto le regole che permettessero agli interessi tedeschi di prosperare, sviluppando più un’Europa tedesca che una Germania europea (secondo un vecchio timore di Thomas Mann). Anche la scelta di campo fatta con Next Generation EU e introduzione di fatto di eurobond è stata corroborata dalla consapevolezza della cancelliera che l’alternativa sarebbe stata l’implosione di quella UE che ha permesso alla Germania di prosperare.
Al tempo stesso, non ci sono dubbi che, oltre alle pressioni di Macron, le pessime relazioni (financo personali) con Trump abbiano contribuito largamente a indurre Merkel a mettere in campo quelle iniziative per l’autonomia dell’UE che la sua (ex) delfina ha di fatto bollato come velleitarie, dando voce a un fronte filo-atlantico che è sempre molto presente in Germania. La Germania, posizionata al centro del continente, è anche il paese cerniera tra Europa occidentale ed Europa orientale, e tra Europa del nord e paesi mediterranei, nonché il principale interlocutore per la Russia in un’Europa che geograficamente (ma in parte anche culturalmente) potrebbe ricomprenderla. Dunque non si faranno passi avanti sull’autonomia strategica europea senza il consenso tedesco.
Berlino si trova oggi in mezzo al guado tra la tentazione di mantenimento dello status di Stato privilegiato in un’Europa attraversata da molteplici fratture e interessi differenti, vassalla degli interessi strategici degli Stati Uniti, e la svolta verso lo sviluppo di un vero soggetto europeo, che possa giocare un ruolo autonomo sullo scacchiere mondiale.
Quella dello sviluppo di un’autonomia strategica è una sfida decisiva per l’Europa e le scelte che gli europei faranno durante il mandato presidenziale di Joe Biden ci diranno se l’esperimento dell’Unione Europea è maturo o se, invece, gli interessi geopolitici che guideranno le scelte di Bruxelles saranno dettati da Washington.
[1] che prevedeva una serie di misure di compensazione all’Iran a fronte di uno stop del paese al nucleare.