Biden, Draghi e i punti di svolta: le basi solide delle democrazie liberali
Due macro-tesi di fondo stanno emergendo con insistenza. La prima vede l’arrivo di Joe Biden alla Casa Bianca, e poi l’arrivo del governo Draghi in Italia, come veri punti di svolta: si tratterebbe di segni inequivocabili, seppure preliminari, del “risveglio dell’Occidente”, o quantomeno (per i più prudenti) di una nuova fase nei rapporti transatlantici. In sostanza, l’idea è che questi due eventi in rapida sequenza pongono USA e UE su un binario di marcia quasi parallelo su temi vitali come i vaccini anti-Covid, le politiche ambientali, un certo approccio complessivo alla crisi economica.
Questa convergenza di vedute si è verificata già nel contesto del G7, e proprio sotto presidenza italiana si spera di sperimentarla anche nel ben più complesso quadro del G20. Insomma, il vento politico ha cambiato direzione, e si aprono grandi opportunità in cui l’Italia può finalmente tornare a essere protagonista – pur con le ovvie difficoltà derivanti dalla tentazione perenne di creare un foro informale tra Washington, Berlino, Parigi e Londra che escluda Roma.
Prima di approfondire il senso (e i limiti) di questa tesi, vediamo l’interpretazione alternativa che circola soprattutto negli ambienti americani più orientati verso una prudente Realpolitik.
La seconda tesi sostiene, in estrema sintesi, che la diplomazia americana sarà pure tornata – come ama dichiarare l’amministrazione Biden in contrasto con l’era Trump dell’unilaterale “America First” – ma deve oggi fare i conti con rapporti globali di forza che non consentono più agli Stati Uniti di definire l’agenda internazionale, e tantomeno di determinare realmente effetti geopolitici duraturi – su Aspenia online, si vedano ad esempio su questa linea, pur con alcune differenze, Charles A. Kupchan e John Hulsman.
In altre parole, a prescindere dalle buone intenzioni l’America del 2021 non è semplicemente più in grado di contrastare l’ascesa cinese, mettere sotto controllo le minacce diffuse nel settore cyber, compensare le debolezze della democrazia liberale nel gestire la pandemia, gestire una finanza globale impazzita o comunque dominata da algoritmi. Al contempo, gli elettori americani non daranno il proprio supporto a eventuali scelte dell’amministrazione nel senso di un maggiore interventismo nelle crisi di sicurezza locali (dal Mediterraneo all’Africa al Myanmar), anche se in gioco vi fossero le aspirazioni democratiche di popoli lontani e diritti umani universali.
Dunque, la stessa retorica sui valori dell’Occidente – e perfino un possibile “summit delle democrazie” che Washington sembra voler estrarre dai cassetti degli anni ‘90 – sarebbe soltanto questo: retorica, appunto. Probabilmente irrilevante, e nella peggiore delle ipotesi perfino controproducente.
Entrambe le tesi di fondo colgono certamente aspetti decisivi dell’attuale contesto internazionale, e soprattutto gli indubbi elementi di novità politica sui due lati dell’Atlantico – che in effetti la nuova amministrazione USA e il nuovo governo italiano incarnano, ciascuno a modo suo. Eppure, entrambe le tesi sembrano perdere di vista la situazione precedente alla vittoria di Biden e alla nascita del governo Draghi, esagerando così la portata di quelle novità.
La prima tesi pecca di un eccesso di ottimismo: le sfide per il modello democratico-liberale sono molto vaste, e figure come Joe Biden e Mario Draghi sanno perfettamente quanto complessi siano i collegamenti dell’interdipendenza globale. La seconda tesi, d’altro canto, pecca di un eccesso di pessimismo quando considera gli Stati Uniti una potenza come tante altre: in realtà, per un osservatore che guardasse – ad esempio dalla prospettiva del rover Perseverance nel suo cratere marziano – alla combinazione di potere materiale, capacità innovativa, libertà personali che troviamo negli USA di oggi, non vi sarebbe dubbio su quale Paese meriti il titolo di unica “superpotenza”.
E’ utile allora ripartire dal dato di fondo dei rapporti di forza e influenza a livello globale, per meglio valutare sia la tesi (troppo) ottimistica sia quella (troppo) pessimistica.
Per quanto la Cina sia ormai una vera potenza su scala globale, le sue capacità di influire deliberatamente sugli eventi del mondo vengono sovrastimate perché siamo tutti abituati (compresa la stessa leadership cinese) a vedere in Washington l’unico centro nevralgico e nell’America l’unico Paese che può cambiare gli equilibri. Ma questa non è, a ben vedere, la definizione di una superpotenza, bensì la descrizione del famoso “momento unipolare” che ha effettivamente avuto breve durata, alla fine della guerra fredda.
Stiamo insomma confondendo la struttura del sistema internazionale (che certo non è oggi “unipolare” né egemonizzata dagli Stati Uniti) con la gerarchia di potenza all’interno di quel sistema (che invece vede ancora una consistente superiorità americana in quasi tutti i settori-chiave).
Dobbiamo anche guardare ai fattori interni, che sono sempre il fondamento della proiezione internazionale. La Cina ha una traiettoria demografica molto preoccupante (invecchia rapidamente e non attira flussi migratori), al contrario degli Stati Uniti. Dato ancor più importante, il cosiddetto “modello cinese” sul piano politico è quello del partito unico e della violenta repressione del dissenso, mentre sul piano economico è uno strano ibrido che il regime stesso non sa bene come riformare per rispondere alle aspettative crescenti della popolazione. Il “modello americano” ha indubbiamente mostrato i suoi molti e gravi difetti, dalla crisi finanziaria del 2008 alla polarizzazione degli anni di Trump, eppure continua ad essere studiato e imitato in mezzo mondo come un tentativo di combinare efficienza e libertà, innovazione e stabilità.
In breve, sia per ragioni materiali e quantificabili, sia per ragioni politiche e ideali, la competizione sino-americana è tuttora assai asimmetrica. E lo è a vantaggio degli Stati Uniti.
Vediamo allora in maggiore dettaglio – avvicinandoci rispetto alla prospettiva “marziana” – alcuni aspetti delle due tesi sopra accennate sugli assetti globali, dentro i quali si può valutare anche qualche opzione per l’Italia.
Anzitutto, la visione di Draghi non è certo periferica o eccezionale nel panorama europeo: anzi, la formazione del governo da lui presieduto porta proprio il mainstream europeo in Italia, cioè in un Paese che per varie ragioni è diventato di importanza “sistemica” per il futuro dell’eurozona e forse della UE nel suo complesso. Abbiamo la sensazione di una forte novità soprattutto perché l’Italia, negli ultimi anni, ha cercato in qualche modo di svincolarsi dalle regole europee che ha precedentemente contribuito a fissare. Roma può contare di più lavorando meglio per cambiare semmai gli accordi, piuttosto che sfuggendo agli impegni presi.
Guardando a Washington, si tende intanto a dimenticare che la percezione di un rapido declino americano è stata nettamente acuita dal fattore contingente del “metodo Trump” in politica estera: per quattro anni, la sua amministrazione ha trasformato la Casa Bianca in un elemento di incertezza e destabilizzazione globale, distraendo il mondo da qualsiasi impegno di coordinamento multilaterale per affrontare varie sfide strutturali e di lungo termine. E’ chiaro dunque che è sembrato a tutti – amici, partner selettivi, e perfino avversari – che il pianeta stesse diventando repentinamente un luogo più competitivo e di fatto anarchico. In particolare, la politica estera di Trump era impaurita e perfino paranoica, vedendo minacce e complotti un po’ ovunque, a cominciare dai tradizionali alleati. La nostra prospettiva sulla traiettoria della competizione globale è dunque distorta da questa esperienza recentissima.
Si potrebbe allora dire che l’America è davvero “tornata”; soprattutto è tornata in sé, sperando di collocarsi nuovamente dov’era prima (cioè prima dell’anomalia Trump), il che non significa necessariamente in posizione egemonica e di assoluto predominio ma semmai al centro delle maggiori reti di rapporti internazionali. In questo senso, sono davvero migliorate le prospettive di una rinascita dei valori occidentali sulla base di alleanze e magari coalizioni a geometria variabile, ma restano certamente tutti i problemi posti dalle dinamiche del potere: posti dalla Cina, dalle altre economie emergenti, da medie potenze opportunistiche come la Russia o la stessa Turchia (membro della NATO!), da complicate crisi regionali come quella della penisola coreana o quella tra Iran e Arabia Saudita. C’è davvero molto lavoro diplomatico da fare, dopo aver riaffermato la piena adesione a valori comuni e obiettivi generali.
Per riprendere le due tesi generali ricordate all’inizio, le personalità di Joe Biden e Mario Draghi sono sì un segnale importante, ma vanno inserite nel contesto di un ritorno a uno dei caratteri fondanti delle democrazie liberali di mercato: l’adesione esplicita (che a volte potrà apparire superficiale e retorica, ma che è comunque senza tentennamenti) alla visione istituzionale dei loro rispettivi ruoli. Un’adesione che si manifesta nei comportamenti e nelle parole. Entrambi i leader dovranno certamente aggiornare e adattare le rispettive tradizioni nazionali alle sfide del momento, ma lo faranno sulla base solida di una cultura politica.
Nel caso del Presidente americano, il recupero di una visione politica e istituzionale tradizionale significa anche collegare in modo specifico il versante interno e quello internazionale: come ha detto nel suo discorso di inaugurazione, “we’ll lead not merely by the example of our power but the power of our example”. Non si può chiedere agli USA – come invece fanno i fautori della tesi di pura Realpolitik – di rinunciare alla propria visione del mondo, e basta ricordare in proposito che il titolo delle memorie di Barack Obama è “A Promised Land”.
Non è neppure chiaro perché mai l’amministrazione Biden dovrebbe rinunciare a vedere il proprio Paese come “eccezionale”: forse perché la Cina sta diventando (o è già diventata) la prima economia al mondo? A giudicare dalla repressione in corso a Hong Kong, dall’assenza di rule of law e di garanzie dei diritti civili, dalle massicce diseguaglianze economiche tra i suoi cittadini, Pechino ha molta strada da fare prima di diventare un Paese-guida. Il motivo è che un leader ha bisogno di qualcuno disposto a seguirlo, non soltanto a fare affari.
Infine, nel caso del Presidente del Consiglio italiano, concepire il proprio ruolo istituzionale in modo adeguato comprende il rispetto delle regole della UE e dell’eurozona, visto che l’Italia ne fa parte a pieno titolo – stante il suo legittimo perseguimento di interessi nazionali, dentro quegli argini che ha volontariamente accettato.
Si può comunque riconoscere che Biden e Draghi hanno alcuni tratti decisivi in comune: hanno sollevato grandi aspettative ma non possono fare miracoli; d’altra parte, guardano al futuro senza esserne terrorizzati, con i piedi per terra e conoscendo il passato.