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Verso la scomparsa di Fatah?

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L’ultima offensiva di Hamas e dei militanti islamisti che operano nella striscia di Gaza ha origine da un processo di trasformazione e riequilibrio nella spartizione del potere all’interno del movimento nazionale palestinese. L’Autorità Palestinese, guidata da Abu Mazen, sembra ormai inerme nel contrastare il tentativo di Hamas, e del suo leader Khaled Meshaal, di guadagnare il primato politico della causa palestinese.

Il periodo seguito a Cast Lead, l’operazione militare che alla fine del 2008 segnò il riacutizzarsi del conflitto israelo-palestinese, aveva visto Hamas mantenere un profilo basso e poco incline al confronto diretto. L’organizzazione islamista che governa Gaza, dopo la schiacciante vittoria elettorale del 2006 e la cacciata di Fatah (componente moderata del movimento palestinese guidata da Abu Mazen) dalla Striscia, ha dovuto operare una difficile ricostruzione interna, inasprita dal duro embargo posto da Israele, e una fase di consolidamento del potere. Il governo nella Striscia ha dovuto fronteggiare in primo luogo l’infiltrazione di altre formazioni militanti di matrice salafita e legate alla galassia qaedista, che Hamas non ha mancato di reprimere.

Con l’arrivo delle primavere arabe e l’affermazione elettorale dei movimenti islamisti moderati in Egitto e Tunisia, Hamas sembra essersi rafforzata. Non a caso, forte del rinnovato clima e fiduciosa del sicuro appoggio dei Fratelli musulmani alla guida dell’Egitto, la leadership di Hamas ha intensificato i lanci di razzi al di là dei confini (un totale di 800 dall’inizio del 2012) fino a sabato 10 novembre, quando quattro soldati dell’Israeli Defense Forces (IDF) sono rimasti vittime di un attacco. Il governo israeliano ha risposto uccidendo il leader militare Ahmed al-Jabari e avviando un’operazione finalizzata a distruggere le infrastrutture militari di Hamas.

La ripresa del conflitto tra Hamas e Israele arriva a due mesi da un delicato appuntamento per la politica mediorientale: le elezioni parlamentari israeliane, previste per il prossimo 22 gennaio. Benjamin Netanyahu, attuale primo ministro e leader del partito conservatore Likud, con ogni probabilità verrà riconfermato alla guida del paese. La potenza militare dell’IDF e il programma elettorale dell’ala nazionalista del Likud si confermeranno come un binomio inscindibile.

Al termine di una settimana di scontri, mentre Khaled Meshaal (dal Cairo) rilasciava dichiarazioni sulla possibile invasione israeliana di Gaza, Abu Mazen e Fatah tacevano. L’Autorità Palestinese si è trovata quasi ad inseguire Meshaal e gli altri membri del Politburo di Hamas, oggetto dell’attenzione degli attori regionali attivi nei negoziati (Qatar, Turchia ed Egitto). Soltanto lunedì 19 novembre (al sesto giorno di scontri), Nabil Shaat, membro del comitato centrale di Fatah, dopo aver incontrato Meshaal e il suo vice Abu Marzouk, ha annunciato che esiste un coordinamento completo tra Abu Mazen e Meshaal su una linea comune nel conflitto. È evidente da questi passaggi il ribaltamento delle posizioni.

L’abilità dei leader di Hamas nel ridisegnare il quadro delle alleanze regionali ha fatto guadagnare all’organizzazione una legittimità più ampia nel contesto internazionale. Dopo il collasso delle relazioni con la Siria, i membri del comitato centrale hanno abbandonato Damasco e hanno trovato rifugio e protezione politica in altre capitali del mondo arabo. Lo dimostra una serie di eventi, e da ultimo la visita dell’emiro qatarino a Gaza. Il primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan, nei giorni scorsi, ha denunciato pubblicamente l’illegittimità dell’attacco contro la popolazione innocente di Gaza. Il neo-presidente tunisino Moncef Marzouki ha dichiarato la propria solidarietà agli abitanti di Gaza, dove vorrebbe recarsi in visita. Vi è poi, naturalmente, il ruolo che sta giocando il presidente egiziano Mohamed Morsi, alleato naturale di Hamas vista la comune origine ideologica della Fratellanza musulmana.

Il 29 novembre il dossier palestinese subirà un’accelerazione con la richiesta formale per la modifica della membership dell’Autorità Palestinese alle Nazioni Unite. Tel Aviv si è opposta a questa mossa minacciando di interrompere la raccolta delle tasse che effettua nella West Bank per conto dell’Autorità Palestinese e minacciando di dichiarare nulli gli Accordi di Oslo del 1993 (che stabilivano il ritiro parziale e progressivo delle forze israeliane da Gaza e Cisgiordania e affermavano contestualmente il diritto palestinese all’autogoverno). La comunità internazionale è spaccata: in particolare, i paesi europei rischiano di dividersi, mentre gli Stati Uniti, che voteranno contro, continuano sostenere che l’unica via sono negoziati di pace. Per molti, questo rappresenta un altro fallimento della leadership di Fatah.

A questo punto, l’indebolimento dell’Autorità Palestinese potrebbe provocare effetti negativi per la stessa Israele. Uri Dromi, ex portavoce di Yitzhak Rabin e Shimon Peres, ha dichiarato che il governo israeliano dovrebbe avere particolare cura dei vicini della West Bank, ovvero di coloro che in ultima analisi riconoscono lo stato d’Israele e accettano la soluzione dei due Stati. “Se perdiamo loro, allora ci rimarrà solo Hamas”. 

Fermo restando la capacità di Tel Aviv di contenere la minaccia palestinese su tutti i fronti (militare e politico), un’ulteriore perdita di credibilità da parte di Abu Mazen non è certamente nell’interesse occidentale. Un eccessivo rafforzamento di Hamas porterebbe a un’alterazione degli equilibri e della sicurezza nell’area, visto che la minaccia più seria proviene dalla penetrazione jihadista e salafita. Questi gruppi hanno già condizionato la condotta politica e militare di Hamas e intravedono ora la possibilità di muoversi ed operare in maniera più disinvolta in tutto il quadrante mediorientale. È una possibilità che va assolutamente scongiurata, considerata l’insanabilità – almeno per adesso – della crisi siriana, la persistente forza di Hezbollah e il progressivo disimpegno militare nella regione da parte degli Stati Uniti.