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Venti anni dopo: il risveglio della Russia (non) democratica

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Il 25 dicembre 1991 Michail Gorbačëv si dimetteva da presidente dell’Unione Sovietica e la bandiera rossa veniva sostituita, sul tetto del Cremlino, dalla bandiera a righe bianca-blu-rossa, segnando la fine di un regime durato 74 anni. Il declino della superpotenza sovietica, iniziato nella seconda metà degli anni ottanta con la glasnost e la perestrojka e con la fine delle democrazie popolari, si concludeva quasi sommessamente con un annuncio televisivo e un ammaina bandiera, senza alcuna imponente manifestazione popolare che fosse paragonabile a quelle viste nelle strade di Berlino o Bucarest.

Venti anni dopo, il 24 dicembre 2011, decine di migliaia di cittadini russi hanno manifestato per le vie di Mosca per chiedere la conclusione di una transizione democratica ancora incompiuta, issando striscioni che riportavano lo slogan “la Russia sarà libera”. I cittadini, più spettatori che protagonisti negli anni che hanno concluso il XX secolo, oggi pretendono in prima persona una vera partecipazione democratica, rivendicando il diritto di esprimere le proprie opinioni senza essere arrestati o censurati (numerosi oppositori sono stati incarcerati e molti blog sono stati oscurati nelle settimane precedenti e successive alle elezioni legislative del 4 dicembre).

La manifestazione è stata possibile grazie a un’insolita alleanza tra la neonata società civile (guidata dal blogger dissidente Aleksej Navalnjy) e tutti i partiti che non siano il “partito del potere” Russia Unita (dai nazionalisti di Zhirinovsky ai comunisti di Zyuganov); l’alleanza è una conseguenza dell’annuncio dello scambio di ruoli tra il capo del governo Vladimir Putin e il Presidente Dmitri Medvedev nella tornata elettorale di marzo 2012 (i due leader di Russia Unita blinderebbero così il loro potere per gli anni successivi), e delle irregolarità riscontrate nelle elezioni politiche del 4 dicembre 2011. Tra le principali richieste della piazza c’è infatti quella di indire immediatamente una nuova e libera tornata elettorale.

Tale richiesta è condivisa tra l’altro anche da Gorbačëv (che ha sconfessato il precedente sostegno a Putin), e patrocinata dalla comunità internazionale (in particolare dagli osservatori Osce e dal Parlamento Europeo con la risoluzione del 14 dicembre).

Gli eventi di queste settimane sono la naturale conseguenza di quanto avvenuto negli anni della transizione post-comunista: nonostante l’approvazione di una nuova Costituzione (1993) che definisce una serie di diritti e libertà inviolabili, l’evoluzione democratica della società civile e della classe politica è stata insufficiente, mentre allo stesso tempo la febbrile corsa all’economia capitalista ha sancito il predominio dell’apparato economico su quello politico.

Negli anni post-‘89 l’ex-Unione Sovietica ha privilegiato la privatizzazione dell’immenso settore statale rispetto al consolidamento delle istituzioni democratiche. Ma il patrimonio pubblico e le risorse naturali sono stati liquidati in assenza di una minima regolamentazione e, spesso, con pratiche inique e illegali. Boris Eltsin e il suo governo iniziarono la corsa all’economia di mercato (con la cosiddetta “terapia shock”), senza però adeguare la legislazione nazionale al traumatico passaggio dall’economia controllata al mercato.

Dunque, nella fase della privatizzazione de-regolamentata non è emersa quella “società economica” che avrebbe potuto temperare l’affermazione del capitalismo, sostituita invece da figure di tipo diverso, che oggi svolgono un ruolo decisivo nella Federazione: i “nuovi russi”, tra i quali spicca una ristretta cerchia di oligarchi arricchitisi in questi anni, capace di condizionare l’economia e la politica nazionale. Il vuoto legislativo ha insomma favorito una simbiosi tra potere economico-finanziario e potere politico.

Gli oligarchi hanno costruito il proprio impero economico impadronendosi dei grandi complessi industriali e delle materie prime del paese, e l’accumulo di capitali che ne è derivato ha consentito loro di assumere il controllo dei principali media. Si trovano perciò nella condizione di esercitare una pressione e un’influenza diretta sulla classe politica: nel 1996 finanziano la rielezione di Eltsin e da quel momento diventano le principali figure di sostegno o opposizione al governo e al Presidente della Federazione, sostituendosi alle organizzazioni politiche e sociali proprie di uno stato democratico.

Chi non si oppone al regime è libero di fare affari e di incrementare le proprie ricchezze con il benestare del governo, offrendo in cambio sostegno clientelare ed economico (è il caso tra gli altri del noto Roman Abramovič). Chi invece si è opposto al sistema di potere che fa capo a Putin è oggi in esilio, come Boris Berezovskij, fuggito a Londra, e Vladimir Gusinskij, esule in Spagna; oppure è in carcere, come il magnate Michail Chodorkovskij, proprietario della compagnia petrolifera Yukos, arrestato nel 2003 e condannato a 14 anni (il Parlamento europeo e Amnesty International hanno espresso forti perplessità sullo svolgimento del processo). Gli oligarchi, quindi, possono essere considerati il simbolo dell’incompiuta democratizzazione russa. La potenza economica di cui godono può fungere da sostegno al governo, ma è anche uno dei pochissimi strumenti che potrebbero essere utilizzati per costruire un’alternativa allo status quo.

Il ruolo di primo piano degli oligarchi è testimoniato, ad esempio, dal miliardario Mikhail Prokhorov, sostenitore del partito Giusta Causa: prima a fianco di Putin, ora (apparentemente) in conflitto, ha ufficializzato la propria candidatura alle presidenziali di marzo 2012.

La preminenza dei poteri economici si deve alla debolezza del sistema politico: il potere quasi illimitato di cui costituzionalmente gode il Presidente della Federazione a scapito del governo e del parlamento riduce infatti drammaticamente lo spazio in cui potrebbero agire i partiti politici. Il Presidente della Federazione Russa è eletto a suffragio universale diretto e ha, di fatto, una supremazia quasi totale sull’esecutivo: nomina il premier e i ministri, può presiedere le sedute di governo, e ha facoltà di decidere in merito alle sue dimissioni. Inoltre controlla il potere giudiziario (art. 83), e ha la facoltà di presentare progetti di legge, di indire referendum e di rivolgere messaggi all’Assemblea Federale sugli indirizzi di politica interna ed estera del Paese (art. 84), di cui definisce gli orientamenti fondamentali (art. 80). A queste ampie prerogative del Presidente si aggiunge una legge federale che limita fortemente il pluralismo politico: l’esistenza dei partiti è condizionata da una rigorosa  e discutibile serie di parametri da rispettare per essere ammessi alle competizioni elettorali.

Su questo sfondo, cosa ha scatenato le proteste di piazza di queste settimane? La scarsa democraticità della costituzione, la mancanza di pluralismo e l’opacità della macchina elettorale sono evidenti a tutti da più di un decennio. Perché il dissenso viene espresso solo adesso, sfidando un potere consolidato? Probabilmente, a far esplodere la protesta della popolazione (soprattutto nelle grandi città), è stata la convinzione che questi mesi siano gli ultimi in cui si può agire.  La modifica costituzionale portata a termine da Medvedev prolunga infatti a sei anni il mandato presidenziale e a cinque quello parlamentare, mentre l’annunciato tandem con il premier ha spianato la strada della rielezione alla presidenza a Putin: l’ex dirigente del KGB potrebbe guidare la Federazione Russa per altri dodici anni (sei più sei), dopo gli otto del periodo 2000-2008. L’idea di essere governati per ventiquattro anni dalla stessa persona non sembra riscontrare un grande favore nella cittadinanza. A ciò bisogna infine aggiungere che negli ultimi anni lo stato dei diritti politici e delle libertà civili del paese è ulteriormente peggiorato: Freedom House ha classificato la Russia, dal 2005, come stato “non libero”. E le aspettative di cambiamento riposte nei leader del partito di governo sono state deluse fino al punto di spingere i cittadini a invocare un vero rinnovamento.