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USA-Pakistan: il momento della diplomazia muscolare americana

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Forse mai come in questo momento la relazione strategica tra USA e Pakistan è stata a rischio. Ciò è vero anche al di là del pur clamoroso caso Davis, il “contractor” sul libro paga della CIA, che si trova in carcere a Lahore con l’accusa di omicidio. L’amministrazione Obama è infatti impegnata in uno sforzo decisivo nella guerra in Afghanistan, per il successo del quale è necessario il puntello pachistano. Nel contempo, non può esimersi dall’occuparsi del “nuovo fronte” apertosi in seguito al crollo a catena di “regimi amici”nel mondo arabo; e ciò non solo sottrarrà risorse ed energie allo scacchiere asiatico, ma potrebbe regalare un atout alla Cina, che può bloccare ogni iniziativa del Consiglio di sicurezza dell’ONU (in quanto membro permanente). È un elemento di preoccupazione in più per gli americani, che già devono fare i conti con il graduale ma continuo aumento dell’influenza cinese in Pakistan.

Il rinvio, deciso da Washington, degli incontri USA-Pakistan previsti per il 23 e 24 febbraio ha avuto come giustificazione ufficiale il rimpasto di governo a Islamabad che ha lasciato vacante la poltrona di ministro degli Esteri. Ma l’episodio è apparso a tutti come una pressione sul governo pachistano perché chiudesse rapidamente il caso Davis (riconoscendo che l’agente detenuto a Lahore è un diplomatico che gode delle immunità previste dalla Convenzione di Vienna).  È vero che successivamente altri incontri sono avvenuti, e senza che si manifestassero particolari contrasti: l’ambasciatore pachistano Husain Haqqani ha visto a Washington l’inviato speciale americano per Pakistan e Afghanistan, Marc Grossman, mentre il Capo di Stato Maggiore Mike Mullen ha avuto un colloquio col suo omologo pachistano Ashfaq Kayani. Da entrambe le parti è stato ribadito che l’alleanza non è in discussione. Ma resta il fatto che Hillary Clinton ha reagito all’arresto di Raymond Davis giocando la carta di una diplomazia muscolare fatta di dichiarazioni dirette, invece che ricorrere a contatti confidenziali. Era facile prevedere che la durezza di Washington provocasse una nuova fiammata di sentimenti antiamericani. Questi sono ben radicati in Pakistan, soprattutto nelle aree tribali a ridosso del confine afgano, e ora sono in crescita a causa degli attacchi con i velivoli senza pilota.

Se è sempre un argomento scivoloso quello che riguarda i profondi sentimenti della gente comune, è più agevole invece definire i rapporti tra i due servizi di intelligence. Da una parte la CIA, che ha un ruolo insostituibile nella gestione della guerra in corso: sarebbero circa 3.000 gli agenti sguinzagliati in Pakistan con un ricorso generalizzato a contractors privati, come appunto Raymond Davis. Dall’altra parte l’ISI, struttura portante del potere in Pakistan da almeno mezzo secolo che, se oggi non può dettare linee politiche al governo, certamente ha la forza per impedire che tali linee vengano attuate. I rapporti tra CIA e ISI sono pessimi, come non accadeva probabilmente dall’11 settembre 2001. Mistero, come è inevitabile, su un incontro chiarificatore che sarebbe avvenuto nei giorni scorsi tra i due boss, Leon Panetta e il generale Ahmad Shuja Pasha; ma intanto l’ISI ha compiuto un passo senza precedenti, con una lettera aperta al Wall Street Journal, in cui si afferma senza mezzi termini che “la condotta della CIA ha virtualmente messo in discussioni i rapporti (tra le due agenzie). È difficile prevedere che si possa mai ritornare al livello di prima che scoppiasse il caso Davis”. Nella lettera si accusa poi la CIA di “mancanza di rispetto” e “arroganza”. Ora l’ISI pretende che Washington consegni la lista di tutti i contractors che operano per la CIA nel paese. Inoltre, porre la questione in termini di sovranità violata tende anche ad incoraggiare in Pakistan le manifestazioni popolari ostili verso gli Stati Uniti. 

Per meglio capire quanto sta accadendo è utile fare un passo indietro. Nel luglio scorso, una direttiva del governo guidato da Yousuf Raza Gilani dava ordine all’ambasciata pachistana a Washington di concedere visti senza la supervisione dell’ISI; come dire, mano libera alla CIA e riduzione delle prerogative dei “servizi”. Sta dunque emergendo in Pakistan un contrasto di fondo tra i civili, ora al governo, e i militari. Peccato che i civili, ai quali Obama intende affidare le sue chance di successo, siano deboli e in perenne lotta tra loro. Da quasi un mese, per di più, cioè in coincidenza con il caso Davis, il Pakistan non ha più un ministro degli Esteri: Shah Mehmood Qureshi, che ha rivelato le pressioni ricevute dalla Clinton, è stato infatti “dimissionato”, ma la sua mancata sostituzione sembra confermare la debolezza di Gilani e le ambiguità del presidente Asif Ali Zardari. Soprattutto, suona come un monito agli americani, quasi a segnalare che la politica estera in Pakistan la fanno i militari: è dunque con loro e solo con loro che si deve trattare.

Sullo sfondo troviamo la Cina, che offre una sponda e una parziale alternativa per il Pakistan, specie ora che si profila un asse tra Washington e Nuova Delhi. Con Pechino i rapporti non cessano di intensificarsi: si è tenuto recentemente l’ottavo round di colloqui bilaterali sulla difesa e la sicurezza, e nel 2011 sono previste varie esercitazioni congiunte. Insomma quella con la Cina è per Islamabad una relazione non meno “strategica”di quella con gli USA: ciò dovrebbe indurre Washington a non tendere troppo la corda.

Le scelte americane di questo periodo possono in parte attribuirsi a un certo nervosismo per l’ormai ravvicinato inizio del ritiro dall’Afghanistan. Ma è anche plausibile che Obama ritenga semplicemente concluso il tempo dei sotterfugi e dei compromessi, avendo valutato che il doppiogiochismo del Pakistan crea danni davvero gravi.  Del resto, la pressione in tal senso viene dallo scacchiere afgano, dove si contattano i talebani ragionevoli, si cerca di dividerli dagli irriducibili e dalla rete di al Qaeda, e si intensificano gli attacchi contro chi rifiuta i negoziati; ciò senza preoccuparsi se abbiano le loro basi in Afghanistan o in Pakistan. A maggior ragione, quindi, diventa intollerabile avere un fronte aperto alle spalle – quel fronte sul quale Raymond Davis stava probabilmente lavorando coi “talebano-pachistani” quando ha ucciso due agenti dell’ISI. I servizi pachistani sostengono in proposito che quei talebani sono sponsorizzati dall’India, il che ci ricorda una volta di più che senza sciogliere il nodo India-Pakistan sarà assai arduo risolvere la questione afgana. Intanto, per l’amministrazione Obama non sembra dunque esserci alternativa a puntare tutto su un governo civile che sappia resistere sia alle profferte cinesi sia all’irriducibile ostilità dei militari verso l’India.