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USA-India: una possibile alleanza tutta in salita

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L’India appare al centro di quel riallineamento strategico della Indo-Pacific area che gli Stati Uniti sono costretti a disegnare a causa della crescita del peso politico ed economico della Cina. A Washington si è consapevoli di questa scelta obbligata fin dai tempi della presidenza Clinton, ma le insidie non mancano. Lo indicano gli ultimi screzi con Nuova Delhi, che hanno portato a una mini-crisi diplomatica nata da un banale caso giudiziario (una vice console indiana, Devyani Khobragade, che ha commesso irregolarità nella gestione di una sua domestica) culminato nell’espulsione del diplomatico indiano coinvolto e in ritorsioni indiane un po’ sopra le righe: espulsione di un diplomatico americano e rimozione delle protezioni antiterrorismo davanti all’ambasciata statunitense a Nuova Delhi.

Un problema di fondo è l’estrema eterogeneità delle relazioni tra gli attori che interagiscono sugli equilibri della vastissima regione indo-pacifica, estesa dalle coste orientali dell’Africa fino al Pacifico occidentale: ciò rende difficile il controllo della situazione e impone a Washington un continuo adattamento della strategia del Pivot to Asia. Inoltre tende a mutare il peso specifico dei partner che l’amministrazione Obama ha identificato come i principali fattori di stabilità; soprattutto, si avverte la necessità di trasformare i rapporti stabili in rapporti privilegiati, con sottintesa un’alternativa secca tra Washington e Pechino che mette in difficoltà i partner asiatici.

Il Paese che meglio risponde alle esigenze americane e che pertanto non richiede sforzi di immaginazione diplomatica è l’Australia, la quale oltre a rappresentare il raccordo geografico tra Oceano Indiano e Oceano Pacifico è da qualche tempo impegnata ad accrescere la sua presenza – commerciale, diplomatica e militare – nell’Oceano Indiano sotto la spinta delle dinamiche della globalizzazione. L’Australia è un alleato sicuro per gli Stati Uniti non solo perché ne condivide gli obiettivi di fondo, ma anche perché è culturalmente in perfetta sintonia.

Ben diverso – quasi all’estremo opposto – è il caso dell’India, che resta una sorta di swing state. È cioè “conquistabile” alla causa americana, ovvero al mantenimento di una stabilità macroregionale che veda negli Stati Uniti il principale fattore di equilibrio, ma non è ancora conquistata e potrebbe non esserlo mai. È il peso della storia a imporre questo interrogativo, a cominciare dalla devastante esperienza coloniale che alimenta tuttora sentimenti anti-occidentali. Anche il recente passato “non-allineato”, tutt’altro che morto con la fine del bipolarismo perfetto, insegna a diffidare di alleati troppo potenti. L’abisso culturale che divide l’India dagli Stati Uniti, malgrado la diffusione dell’inglese nel subcontinente e le frequentazioni oxfordiane della classe dirigente indiana, aggiunge motivi di incomprensione.  Questo aspetto risulta tanto più insidioso in quanto è scarsamente percepito dagli americani, come indica proprio il trattamento riservato al vice-console Khobragade, vissuto in India come una umiliazione nazionale. A Washington si è convinti, probabilmente a ragione, che l’episodio verrà presto dimenticato; ma intanto esso contribuisce, in qualche misura, a svuotare di significato la “cooperazione strategica” sancita nelle dichiarazioni ufficiali. In particolare, ripropone la questione del rispetto della sovranità altrui, al quale gli asiatici sono particolarmente sensibili e in cui la diplomazia cinese – a differenza di quella americana – è maestra. Tale differenza di fondo è affiancata alla contrapposta percezione, molto diffusa tra gli imprenditori americani, che India sia sinonimo di corruzione, eccessi burocratici, scarsa protezione della proprietà intellettuale. È inevitabile che questo gap rallenti ogni tentativo pratico di avvicinamento.

Eppure Barack Obama ripone grandi speranze nel consolidamento dei rapporti con l’India. In sostanza, limitandosi al Pacifico occidentale può ben “accontentarsi” dei suoi alleati classici come l’Australia e il Giappone (irrilevante in questo caso la Corea del Sud, dove la presenza militare è rappresentata da truppe di terra). Ma per conservare anche nell’Oceano Indiano una presenza logistica e una capacità operativa dominante – seppure diversa e in qualche modo riequilibrata rispetto alla seconda metà del XX secolo – l’appoggio dell’India risulta indispensabile. Anche in Asia centrale l’India sarebbe un utile contrappeso alla Russia e soprattutto alla Cina. Per la stessa stabilizzazione dell’Afghanistan Washington conta molto sul Nuova Delhi, chiamata a dare continuità a quella “nuova via della seta” che dovrebbe connettere l’Asia centrale al Sud-Est asiatico.

Le strutturali divergenze di interesse tra India e Cina sono il punto di forza della strategia americana. Ma non vanno sottovalutati anche i fattori che impongono a Nuova Delhi e Pechino di aprirsi sempre più al dialogo, a partire dagli intensissimi e insostituibili rapporti commerciali. Ne deriva una interdipendenza che potrebbe condurre il governo indiano a non seguire in pieno i consigli degli Stati Uniti se questi comportassero un eccessivo peggioramento dei rapporti con Pechino. Eventualità, questa, facilmente prevedibile qualora, superato il livello delle intese bilaterali con gli Stati Uniti, l’India fosse inserita, di fatto se non istituzionalmente, in una cornice di sicurezza collettiva dell’Indo-Pacific area: quasi inevitabilmente, la logica di sicurezza del Pivot to Asia comporta infatti un contenimento dell’avanzata cinese verso i mari caldi. Meno dirompente per la Cina – e quindi anche per l’India – sarebbe invece l’idea di affidare a Nuova Delhi, che non ha peccati “coloniali” da scontare (a differenza di Stati Uniti e Giappone), il compito di convincere i Paesi rivieraschi a stabilire un “codice di condotta” che garantisca la libertà di navigazione nell’Oceano Indiano evitando il ripetersi delle tensioni che percorrono il Mar Cinese meridionale.

In ogni caso, il contenimento della Cina potrebbe non essere la principale priorità per l’India e, al contrario, potrebbe sorgere la tentazione di qualche forma di cooperazione alternativa a quella con Washington. Da battistrada potrebbe fare proprio quel settore del nucleare civile che doveva essere – simbolicamente e non solo – il cardine della nuova alleanza tra Stati Uniti e India. Inaugurato dall’amministrazione Bush e ribadito da Obama, questo ambito di cooperazione regalava all’India uno status tutto particolare nell’ambito del trattato di non proliferazione, e all’industria nucleare americana la chance di entrare con facilità in un grande mercato. Invece, a distanza di quasi otto anni, ben poco è stato fatto di concreto; potrebbe allora inserirsi la Cina, che sul nucleare sta puntando molto.

Washington deve muovere le sue pedine in fretta, perché la presenza cinese nell’area è in rapido aumento, al punto che l’Oceano Indiano si configura come il vero banco di prova per la trasformazione della Cina in una grande potenza a tutto campo, dotata di una capacità di intervento navale che risponda ai suoi sempre più vasti interessi strategici. La presenza cinese in queste acque, cominciata cinque anni fa con la missione antipirateria nel Golfo di Aden, è ormai un dato incontrovertibile e la Marina di Pechino, sebbene non cerchi ancora di dotarsi di basi permanenti, è assai attiva: ha moltiplicato le visite nei porti stranieri, ha fatto propria la tattica degli interventi umanitari che possono aprire la strada a forme di cooperazione di ben altra natura, partecipa a importanti operazioni di pace (ultima quella in Siria, che l’ha portata fin nel Mediterraneo). L’Oceano Indiano inoltre rappresenta uno sbocco essenziale per lo sviluppo delle regioni meridionali non costiere, e la Cina ha ormai interessi di grande rilievo in Africa, essendo già primo partner commerciale del continente.

Di fronte a questi sviluppi Obama ha la necessità di restare in sintonia con la politica del “guardare verso Est” inaugurata dal primo ministro indiano Manmohan Singh per guadagnare spazi di manovra nell’area dell’ASEAN; politica che non manca di ricadute strategiche poiché uno dei principali mezzi di penetrazione è costituito dalla vendita di armamenti. Sul lato Ovest dell’India, invece, c’è da mettere in conto la mezza perdita del Pakistan da parte degli Stati Uniti, che ha aperto una sorta di autostrada geopolitica alla Cina verso l’Oceano Indiano, e fornisce oltretutto a Pechino un mezzo di pressione in più nei confronti di Nuova Delhi. Attraverso il Pakistan entra in gioco anche la più generale questione islamica, terrorismo compreso, con le sue radici mediorientali. E dunque il Medio Oriente, cui Nuova Delhi guarda anche come fornitore di energia, torna in primo piano. Anche per questa via, il pendolo degli interessi strategici degli Stati Uniti, rivolto dal 2011 verso l’Asia orientale, torna ad avvicinarsi proprio al Medio Oriente, trasformato, come ha di recente scritto su Aspenia Arnaldo Testi, nell’Estremo Occidente degli americani.