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Usa-Giappone: la vecchia alleanza ancora utile

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Barack Obama è rimasto poco più di ventiquattro ore in Giappone, ma la sua visita ha certamente contribuito a smorzare le tensioni accumulatesi tra Tokyo e Washington dopo le elezioni politiche di agosto: elezioni stravinte dal Partito Democratico (PD), con la successiva formazione del governo di Yukio Hatoyama.
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Subito prima del vertice dell’APEC a Singapore, la visita ha avuto un elevato valore simbolico, che non è sfuggito ai media locali né agli altri paesi della regione. Facendo di Tokyo la prima tappa del suo primo viaggio in Asia come Presidente degli Stati Uniti, Obama ha voluto così sottolineare il ruolo fondamentale dell’alleanza con il Giappone come partner strategico cruciale, nonostante le difficoltà emerse anche in questi ultimi mesi.

A ben guardare, il programma politico della nuova maggioranza di centro-sinistra è per molti aspetti in sintonia con le linee guida dell’amministrazione americana. In tema di politiche sociali, di rilancio della domanda interna, di lotta al cambiamento climatico, il Giappone di Hatoyama è molto più vicino agli Stati Uniti di Obama di quanto non lo fosse ai tempi del governo conservatore di Aso. Ma nell’ambito della politica estera e di sicurezza sembrano prevalere le divergenze e i contrasti. Infatti, pur continuando a riconoscere la centralità strategica dell’alleanza con gli Stati Uniti di fronte alla minaccia, in realtà più presunta che reale, della Corea del nord  e di fronte alla ben più problematica ascesa della Cina, il Partito Democratico e il governo di Hatoyama hanno  assunto posizioni a volte critiche nei confronti dello storico alleato. Alleati sì ma non burattini al servizio sempre e comunque degli interessi della superpotenza: questa, in estrema sintesi, la posizione del nuovo governo giapponese, che rivendica maggiore autonomia.

Hatoyama e il Segretario Generale Ozawa – il vero padrone del Partito Democratico – sono intenzionati a spostare verso il continente il baricentro della politica estera giapponese: una scelta giustificata anche dal crescente livello di integrazione economica che unisce il Giappone ai paesi dell’area, a fronte del relativo calo del peso e dell’importanza del mercato statunitense.  Hatoyama, in particolare, ha innalzato da tempo il vessillo di un ancora non ben definito progetto di cooperazione e di integrazione regionale asiatica dal quale gli Stati Uniti rischiano di essere esclusi.

Questo nuovo orientamento si è già tradotto in alcuni passi concreti. Anzitutto, il nuovo governo ha deciso di non rinnovare la missione delle navi della marina militare giapponese che riforniscono di acqua e carburante le navi americane e degli altri paesi occidentali operanti nell’Oceano Indiano. Inoltre, ha chiesto di rivedere l’accordo per la riorganizzazione delle truppe americane di stanza in Giappone, siglato nel 2006 dopo un lunghissimo e complesso negoziato iniziato quasi dieci anni prima. In particolare, c’è la richiesta giapponese di riconsiderare la decisione di spostare la principale base dei Marine da Futenma, dove è circondata da abitazioni e aule universitarie, ad un’altra località dell’isola di Okinawa. La reazione del Segretario alla Difesa americano, Robert Gates, è stata decisamente negativa. Facendo seguito ad una promessa effettuata durante la campagna elettorale e sancita nel manifesto programmatico del PD, il nuovo governo ha proposto di valutare il trasferimento della base in un’altra regione o addirittura fuori dal Giappone. Il Ministro degli Esteri Okada ha anche suggerito, incautamente, di accorpare la base dei Marine con la grande base aerea di Kadena che si trova a poche decine di chilometri di distanza: proposta già bocciata a suo tempo per ragioni tecniche e per la forte opposizione della popolazione locale. Si è così riaperta l’intera discussione sulla presenza militare americana a Okinawa, accompagnata anche da grandi manifestazioni popolari – oltre diecimila persone in piazza la scorsa settimana – e dalla minaccia americana di sospendere il trasferimento di 8.000 militari da Okinawa a Guam qualora non sia rispettato l’accordo del 2006.

Su questo sfondo di relazioni certo non distese, la visita di Obama del 13 e 14 novembre ha certamente riportato l’attenzione sul valore strategico dell’allenza. Nel suo discorso  di Tokyo, il Presidente ne ha ricordato il ruolo per la sicurezza e la prosperità dei due partner, ma ha anche espresso il suo appoggio alla nascita e alla crescita di organizzazioni multilaterali che “possono contribuire alla sicurezza e alla prosperità della regione”. Aggiungendo però che gli Stati Uniti, “in quanto nazione dell’Asia-Pacifico” siano coinvolti nella elaborazione di questi progetti e possano partecipare a pieno titolo nelle istituzioni che saranno create in futuro. Messaggio forte e in parte innovativo rispetto al passato.

Sulla delicata questione di Okinawa le due parti hanno concordato di affidarne il riesame a un gruppo di lavoro intergovernativo. Rimane però una sostanziale differenza di impostazione: gli americani si aspettano che si trovi una rapida soluzione che permetta di realizzare quanto già stabilito, mentre il governo giapponese è ancora alla ricerca di opzioni alternative o per lo meno di una via d’uscita accettabile. In ultima analisi va detto che, per quanto serio possa essere il problema, esso non è di tale portata da minare le fondamenta di un’alleanza che risponde tuttora agli interessi dei due paesi. L’anno prossimo sarà celebrato il cinquantesimo anniversario della firma del Trattato di Sicurezza, e il rapporto strategico nippo-americano non sarà certo in crisi terminale.  

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