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USA e Brasile dopo la conferma di Dilma: la svolta improbabile

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“Più cambiamenti, più futuro”, e “nuovo governo, nuove idee”. Sarà interessante vedere quanto gli slogan elettorali di Dilma Rousseff, riconfermata per altri quattro anni alla presidenza del Brasile con una risicata vittoria su Aécio Neves, diverranno realtà anche nelle relazioni tra il principale paese latinoamericano e gli Stati Uniti. È lecito ritenere che questi cambiamenti, se ci saranno, saranno abbastanza limitati. Complice la fine della campagna elettorale, i rapporti bilaterali possono risollevarsi dagli abissi in cui li ha gettati il caso Snowden – con la rivelazione che il Brasile è stato il paese più spiato nella regione. Ma le divergenze e i problemi restano, e le relazioni bilaterali appaiono destinate a rimanere improntate a un combinato di diffidenza e indifferenza reciproche.

Almeno un tratto – paradossale, soprattutto per due paesi di grandi dimensioni – accomuna Stati Uniti e Brasile: nessuno dei due considera prioritaria la relazione con l’altro. Per gli USA è così da almeno 25 anni, da quando cioè la fine della guerra fredda ha fatto venire meno il rischio di una penetrazione del comunismo a Sud del Rio Grande. Qualche decennio prima, proprio per scongiurare che il principale paese latinoamericano fosse retto da un Presidente vicino alla socialdemocrazia come João Goulart, Washington non aveva esitato a sostenere il colpo di Stato militare che avrebbe portato a 20 anni di dittatura (1964-1985). Con il collasso dell’Unione Sovietica, il Brasile in particolare e l’America Latina in generale sono precipitati molto in basso nell’agenda politica statunitense.

Washington guarda alla regione attraverso le lenti deformate di una triplice ossessione: immigrazione, narcotraffico e Cuba. Il Brasile non è tra i principali paesi di origine dei migranti clandestini che arrivano negli USA; il suo ruolo nel narcotraffico è quello di paese consumatore e di ponte verso l’Europa, più che verso Nord; e pur avendo Dilma (e il suo predecessore Lula) ottimi rapporti con i Castro, naturalmente Brasilia non è L’Avana. In effetti, c’è stata per una fase transitoria una strana alleanza tra George W. Bush e Lula, indicato allora dalla Casa Bianca come il modello di una sinistra latinoamericana “responsabile”: quel passaggio era però legato soltanto all’attivismo regionale del Presidente venezuelano Hugo Chávez – che si presentava anche come principale alleato di Cuba. La scomparsa di Chávez e l’elezione di Obama hanno decisamente cambiato il quadro: senza il suo condottiero, l’asse chavista non fa più paura. Nel frattempo, agli occhi statunitensi il “modello brasiliano” ha smesso di essere tale, considerando il protezionismo adottato da Dilma e le recriminazioni di Brasilia sulla politica monetaria della Fed. In questa fase per Washington è più facile e più importante dialogare con i paesi dell’Alleanza del Pacifico (la fida Colombia, il Messico, il Perù e il Cile), che condividono l’impostazione liberoscambista.

Come ricordato, il gigante latinoamericano non poteva però sfuggire alle attenzioni della National Security Agency (NSA). Gli articoli del giornalista Glenn Greenwald basati sulle rivelazioni di Edward Snowden hanno mostrato che il Brasile è stato almeno fino alla primavera 2013 il paese più controllato e intercettato dall’NSA in America Latina. Sotto controllo sono finiti anche la compagnia petrolifera nazionale Petrobras e le comunicazioni della stessa Presidente della Repubblica Dilma Rousseff, la quale ha reagito criticando duramente Washington e cancellando la visita di Stato negli USA prevista per ottobre dell’anno scorso. Il Brasile è, dopo la Germania, il paese in cui il “Datagate” ha avuto le conseguenze politiche più visibili (e peggiori) nei rapporti bilaterali degli Stati Uniti.

La prima economia latinoamericana oggi è concentrata su se stessa. Dopo otto anni di attivismo di Lula, durante il primo mandato Dilma ha prestato poca attenzione alla regione e ancora meno al mondo, preferendo occuparsi della tenuta del paese di fronte alla crisi mondiale: il Brasile, già in lieve recessione nel 2009, è cresciuto a tassi bassi da allora, fino a rientrare in recessione quest’anno. Nel frattempo ha rinunciato ad esprimere la sua leadership regionale, limitandosi a impedire che le crisi dei paesi vicini (Venezuela e Argentina) si propagassero oltreconfine.

A leggere il programma con il quale la presidente è stata rieletta, il suo focus nel secondo mandato non dovrebbe cambiare: in un documento lungo 42 pagine, appena una e mezza (a partire dalla fine di pag.39, oltretutto) è dedicata alla politica internazionale. La priorità viene data ai paesi latinoamericani; poi si promette di ampliare le relazioni con i paesi africani, con quelli asiatici – naturalmente, con menzione specifica  della Cina –  e con il mondo arabo. Solo dopo aver accennato ai BRICS il programma ricorda l’importanza del rapporto con gli Stati Uniti.

L’ordine non è casuale. Dai tempi di Lula, la politica estera brasiliana è stata impostata al rafforzamento e alla creazione di legami con paesi e aree del mondo trascurate in precedenza. Il graduale allentamento dei rapporti con gli Stati Uniti non rappresentava necessariamente una sfida diretta a Washington; era la conseguenza inevitabile del tentativo brasiliano di accreditarsi come potenza regionale – e in fieri mondiale – autonoma, dotata di una propria agenda a raggio globale.

Pur non essendo anti-statunitense per principio, l’agenda internazionale del Brasile lo è diventata nei fatti. Dall’infruttuosa mediazione turco-brasiliana sul dossier nucleare iraniano al silenzio sulle stragi del regime di Bashar al-Assad in Siria, senza dimenticare le astensioni su due risoluzioni dell’ONU – quella sull’autorizzazione alla no-fly zone in Libia (Consiglio di Sicurezza, 2011) e quella che condannava l’annessione russa della Crimea (Assemblea Generale, 2014).

Questi episodi sono lo specchio di un dato di fondo, che ostacolerà i rapporti bilaterali anche nel secondo mandato di Dilma: i principali obiettivi della politica estera brasiliana sono difficilmente compatibili, quando non opposti, rispetto a quelli statunitensi.

La “riforma dei principali organismi internazionali come l’ONU, l’FMI e la Banca Mondiale”, citata nel programma elettorale, comporterebbe ad esempio una riduzione del potere decisionale degli USA. Non a caso il Congresso statunitense ha bloccato l’implementazione della revisione (già decisa) delle quote di voto all’FMI. L’allargamento del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite a nuovi membri permanenti non è nell’interesse di nessuno degli attuali cinque, anche qualora si evitasse l’ampliamento del diritto di veto. Su questo sfondo, è poi degno di nota che Obama si sia espresso a favore dell’ingresso dell’India come membro permanente e sia rimasto silente sul Brasile. Intanto, l’insistenza brasiliana sul concetto di non-ingerenza negli affari interni trova orecchie più attente a Pechino che a Washington. Dunque, siamo di fronte a divergenze sia di interessi che di principi generali.

Ora che si è garantita la rielezione (e che ha fatto approvare una nuova legge su Internet), Dilma può sicuramente abbandonare i toni più duri usati contro gli USA nei momenti più difficili del Datagate. Il miglioramento dei rapporti tra la principale potenza mondiale e la principale economia latinoamericana gioverebbe senza dubbio a entrambi. Non potrebbe però cancellare la distanza che separa le posizioni dei due paesi sui principali dossier di politica internazionale.

 

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Carlo Jean