international analysis and commentary

Il bis di Dilma Rousseff e l’esigenza di cambiare qualcosa

248

È Dilma de novo” cantano nelle periferie più umili di Rio de Janeiro e San Paolo i supporter della Rousseff, la Presidente uscente che si è riconfermata alla presidenza del Brasile. Ha ottenuto il 51,64% dei voti e distanziando di oltre tre punti percentuali il socialdemocratico Aécio Neves, fermatosi al 48,36% – non una vittoria schiacciante ma comunque un’affermazione chiara. Sono loro, la “nuova classe media” con sulle magliette vermiglie il numero 13, che poche ore prima hanno digitato sulle macchine elettroniche dei seggi. “Per votarla e ridare fiducia al sogno!”, grida un barista rasta e nero come la pece che lavora allo Starbucks dell’Itaim, uno dei quartieri-feudo di Aécio a San Paolo, la megalopoli da sempre allergica al PT (Partido dos Trabalhadores). Al primo turno il barista confessa di aver votato per Luciana Genro del PSOL (Partido Socialismo e Liberdade) perché, spiega lui, “il partito dei lavoratori, il PT di Lula, sta troppo a destra, sta con le multinazionali”. Gridano e festeggiano i neri ed i pardos – come chiamano qui i mulatti – che in gran parte hanno votato Dilma, mentre il silenzio di tomba s’impossessa dei quartieri bene paulisti e carioca, tutti pro-Aécio e dove i bianchi sono la stragrande maggioranza.

In realtà non è solo una questione di colore della pelle ma di reddito e geografia, come confermano le prime analisi del voto brasiliano: nel paese del samba infatti chi guadagna meno di due stipendi minimi, l’equivalente di neanche 500 euro, ha votato Dilma nel 75% dei casi; e, nella stragrande maggioranza (l’80%), bianco non è.

Nel nord-est e nel nord, le due macroregioni più povere e colored del paese, che comprende Bahia (fondamentale per la vittoria petista essendo il quarto collegio elettorale), Dilma ha stravinto. Nel Piauí e nel Maranhao, i due stati (l’equivalente delle nostre regioni) più poveri del Brasile, la Rousseff ha ottenuto più del 78% dei voti validi, una valanga.

Statistiche confermate dalle fotografie perché tra i supporter di Neves avvistare un mulatto è un’impresa – un po’ come negli stadi dell’ultimo Mondiale, dove sugli spalti a causa del caro biglietti entrarono quasi solo turisti e brasiliani ricchi, cioè bianchi. Furono loro a fischiare (ed insultare) la Presidente Rousseff in mondovisione mentre fuori dalle arene una folla di steward ed addetti alla security dalla pelle scura, ogni volta che le telecamere inquadravano “a Dilma”, l’applaudivano più di Neymar.

Sono stati loro, è stato il barista di San Paolo, a garantire la vittoria di ieri all’ex guerrigliera-Presidente, nonostante i tanti problemi: una corruzione endemica che coinvolge tutti i partiti compreso il PT, un’economia che balbetta, ed una violenza che solo nel 2013 ha lasciato sul terreno 56mila morti ammazzati (il 12% di tutti gli omicidi registrati al mondo).

Al di là dello stretto margine del risultato, la vittoria di ieri sottolinea come dopo dodici anni di presidenze del PT, i brasiliani abbiano in effetti preferito la continuità rispetto al cambiamento proposto dal candidato dell’opposizione di centro-destra. E questo nonostante quasi tutta la stampa sia anti-governativa.

Dilma insomma ce l’ha fatta, assicurandosi la presidenza sino al 2018 ma di certo, d’ora in avanti, dovrà cambiare registro per risolvere i gravi problemi economici che attanagliano il Brasile. Continuare a ripetere che “mai come oggi il Brasile ha avuto una disoccupazione così bassa” come fatto in campagna elettorale, non basta più. Soprattutto quando da due anni il paese non cresce e anzi, dopo due trimestri di PIL negativo, oggi è in recessione tecnica.

Nel conteggio di chi non ha un lavoro, infatti, non è inserito dall’IBGE (l’equivalente dell’Istat) chi un’occupazione non la cerca, a cominciare dai 53 milioni di brasiliani che ricevono almeno 321 reais – pari a 110 euro circa, ma possono superare i mille in caso di famiglie molto numerose – del “Borsa Famiglia”.

Se a ciò si aggiunge che la produzione industriale sta calando, il deficit commerciale solo a settembre ha superato i 2,5 miliardi di euro mentre l’inflazione percepita è di gran lunga superiore al 6,5% dichiarato, ben si capisce perché Dilma non possa dormire sonni tranquilli.

Il voto del 26 ottobre, cui bisogna sommare l’astensione record con oltre 30 milioni di brasiliani probabilmente disgustati da una delle campagne elettorali più polarizzate di sempre, dimostra anche una spaccatura tra due fronti contrapposti che – a detta di alcuni osservatori – negli ultimi anni in Sudamerica si era vista solo in Venezuela. Non a caso, nel suo primo discorso ufficiale da Presidente rieletta, Dilma dopo avere parlato di “vittoria storica” ha subito fatto appello “alla pace” e “all’unità del paese”, promettendo di “essere una Presidente migliore” nel suo “secondo mandato”.

A questo punto, tutti in Brasile sperano che ce la faccia, anche perché in caso contrario le spaccature sono destinate ad allargarsi: tra nord e sud (dove invece a stravincere è stato Aécio), tra bianchi e mulatti/neri, tra “nuova” classe media (ovvero chi incassa tra i 321 ed i 1.000 reais, vuoi con sussidi o col lavoro) e la classe media “consolidata” (quella che un tempo si chiamava borghesia, che guadagna almeno 3.000 reais).

La produzione industriale balbetta, e se si escludono materie prime, agrobusiness ed Embraer, per il resto l’offerta verde-oro continua inelastica come non mai – o, con un termine meno tecnico, è ferma – mentre sul fronte del commercio internazionale il paese rimane di gran lunga quello più protezionista tra i BRICS. 

Tra le priorità del suo secondo mandato Dilma dovrà innanzitutto migliorare le sue capacità di articolazione politica, per riuscire ad unire (come faceva Lula) invece che dividere e polarizzare, come fatto sinora a causa del suo carattere a dir poco spigoloso.

Negli ultimi quattro anni, la Presidente ha perso infatti pezzi importanti del PT. Prima Marina Silva, che aveva fondato con il compianto Chico Mendes il Partito dei Lavoratori nello stato amazzonico dell’Acre, nel lontano 1985. Poi Eduardo Campos, il leader socialista scomparso lo scorso agosto e da Lula stesso indicato, solo un paio d’anni, fa come possibile candidato del Partito dei Lavoratori per le presidenziali del 2018. Infine Gilberto Gil, già Ministro della Cultura lulista.

Perfino tra i più stretti consiglieri di Dilma – economici e politici – si registra, sebbene non pubblicamente, una certa delusione nei confronti della conduzione politica della delfina di Lula.

Se vorrà riunire attorno a sé una coalizione parlamentare in grado di fare ripartire un paese dalle enormi potenzialità come il Brasile la Rousseff dovrà cambiare molte cose, a cominciare dalla sua politica economica. 

 

Also on this topic from Aspenia 64, Il Brasile mondiale:

Le conquiste del passato e le frustrazioni del presente
Renato Fragelli Cardoso

Sviluppo e demografia: il paese della continuità?
Alberto Almeida

Il paese delle molte complessità
Domenico De Masi