international analysis and commentary

Una risposta ai nostri critici: guardare i fatti e allungare la vista

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Il nostro articolo, Una proposta istituzionale per l’Europa: legittimazione ed efficienza, aveva lo scopo di muovere le acque di un dibattito sull’Europa che troppo spesso si è cristallizzato intorno a prese di posizione quasi scontate. Ringraziamo davvero Giuliano Amato, Riccardo Perissich e Roberto Menotti per aver accettato la nostra sollecitazione, dando vita ad una discussione che riteniamo utile e originale.

L’articolo partiva dal riconoscimento di due fatti empirici che ci sembrano incontrovertibili. Il primo concerne il fallimento della costituzione intergovernativa celebrata dal Trattato di Lisbona per gestire le politiche collegate alla moneta comune. Amato, Perissich e Menotti concordano con questa valutazione critica. Il “Compromesso di Maastricht” non ha funzionato. Quel compromesso prevedeva che alcune politiche sensibili per le sovranità nazionali – ivi incluse le politiche economiche (ad esclusione della politica monetaria, centralizzata presso la BCE) – fossero “europeizzate” ma venissero gestite dai governi nazionali attraverso meccanismi di coordinamento volontario. La crisi dell’euro ha fatto saltare quel compromesso in campo economico. Il fallimento della costituzione intergovernativa è dovuto al fatto che le decisioni prese (seppure di grande rilevanza) sono arrivate tardi e si sono dimostrate insufficienti per gestire la crisi finanziaria, ma anche al fatto che quelle decisioni sono state prive di un’accettabile base di legittimazione democratica. Per gestire l’emergenza, l’eurozona si è dotata di strumenti istituzionali e di policy che hanno centralizzato le politiche economiche molto di più di quanto non sia normalmente accettabile in un sistema federale, dando vita a un’Unione intergovernativa accentrata, ancora inefficiente e poco o punto democratica. Un’Unione, per di più, che invece di unire i cittadini degli Stati membri dell’eurozona ha finito per dividerli, da una parte quelli dei paesi debitori e dall’altra quelli dei paesi creditori. 

Sorgono qui alcune domande fondamentali. È realistico riportare l’eurozona del Fiscal Compact e dell’European Stability Mechanism all’interno del Trattato di Lisbona? Oppure dovremo constatare che la distinzione tra l’eurozona (Plus quegli Stati intenzionati ad adottare la moneta comune) e gli altri Stati membri dell’UE non è facilmente ricomponibile? Ha ragione il primo ministro inglese David Cameron quando sostiene che non è possibile un’Unione Europea con “una taglia che vada bene per tutti” (one size fits all), oppure il cancelliere tedesco Angela Merkel quando gli risponde che la forza dell’Unione Europea è nella sua integrità? Il nostro articolo voleva aprire la discussione su questo punto, facendo rilevare, peraltro, che l’Unione più integrata (quella dell’eurozona) si basa su strumenti fortemente intergovernativi, mentre l’Unione meno integrata (quella del mercato comune) si basa invece su un Trattato sovranazionale.

Il secondo fatto incontrovertibile sollevato dal nostro articolo riguarda il ruolo assunto dal Consiglio europeo. Con la crisi dell’euro, quest’ultimo è diventato l’organismo decisionale dell’Unione Europea. Lo è diventato perché così è stato previsto dal Trattato di Lisbona che ha affidato, appunto, agli organismi intergovernativi (come il Consiglio europeo e il Consiglio) la gestione delle politiche sensibili per le sovranità nazionali degli Stati membri. Ma lo è diventato anche perché i capi di governo dispongono di un potere istituzionale evidente, in un’Unione di Stati radicati e consolidati. Certamente si potrebbe ipotizzare, come fanno sia Giuliano Amato che Riccardo Perissich, che tale ascesa decisionale del Consiglio europeo possa essere ridimensionata nel futuro, con il superamento dell’emergenza finanziaria. Il fatto è però che il Consiglio europeo è stato attraversato da un processo di accelerata istituzionalizzazione, anche grazie alla sua presidenza permanente. È plausibile ipotizzare che quando un’istituzione si rafforza così prepotentemente, allora vuole dire che essa risponde ad un’esigenza sistemica, non contingente. Così come è altresì plausibile pensare che un’istituzione rafforzata difficilmente accetterà un suo successivo indebolimento.

Il risultato è che oggi l’Unione Europea ha un esecutivo duale, come il Giano bifronte delle divinità romane: la faccia politica è nel Consiglio europeo e la faccia tecnica nella Commissione. La nostra proposta voleva aprire una discussione su come armonizzare quelle due facce, le quali, contrariamente a quelle del dio romano, dovrebbero cercare di guardare nella stessa direzione. Comunque sia, nella strutturazione del nuovo esecutivo duale, la Commissione ha potuto fare poco per imporre una diversa logica, non solo per la debolezza politica e l’incertezza intellettuale del suo presidente. In questi ultimi anni, la Commissione è diventata un potente organismo di implementazione di scelte compiute dal Consiglio europeo o dal Consiglio ECOFIN o dall’Euro Gruppo, non già la fonte di quelle decisione. Anzi, si potrebbe dire che gli stimoli strategici più importanti, che un tempo provenivano dalla Commissione, negli ultimi anni sono venuti dalla Banca Centrale Europea. È dunque plausibile ritenere che la vicenda della Commissione presieduta da Jacques Delors (1985-1994), connotata da un forte attivismo progettuale e politico, possa risultare, se vista in una prospettiva storica, come un periodo particolare e non già come un’esperienza di carattere generale.

L’esecutivo duale non è necessariamente un problema. È possibile che le due presidenze possano essere ricomposte in futuro, come auspicano sia Giuliano Amato che Riccardo Perissich, Ma è anche possibile che le due presidenze possano trovare un equilibrio funzionale, così rispondendo all’esigenza di una decisionalità in grado di bilanciare la politica con la tecnica. È il punto sollevato con arguzia da Roberto Menotti: la complessità crescente del processo di integrazione monetaria richiede sempre di più competenze tecniche al punto da configurare esiti tecnocratici dell’Unione economica e monetaria. La proposta contenuta nel nostro articolo offre una risposta a questa evoluzione tecnocratica. Essa vuole preservare l’integrità tecnica della Commissione, rafforzata dal suo collegamento politico con il parlamento europeo. La Commissione deve divenire ciò che in effetti è già: un formidabile strumento di implementazione di decisioni politiche, un efficiente civil service sovranazionale, un garante del rispetto delle regole dei trattati. Allo stesso tempo, proponendo di democratizzare l’elezione del presidente del Consiglio europeo, vorremmo che si centrasse su quest’ultimo la necessaria politicizzazione dell’esecutivo duale. Attraverso l’elezione del presidente del Consiglio europeo (che a quel punto dovrebbe più propriamente chiamarsi presidenza europea), si potrebbe trovare una sintesi politica tra le divergenti visioni nazionali e l’esigenza di decidere insieme e a maggioranza una posizione comune degli Stati. A loro volta, il presidente del Consiglio europeo e la Commissione dovrebbero stabilire un rapporto di collaborazione politica e operativa, come avviene (ad esempio) nell’esecutivo duale della Francia della Quinta Repubblica tra il presidente e il primo ministro.

Contrariamente a ciò che avviene ora, un esecutivo forte come quello sopra configurato deve essere tenuto sotto controllo da un legislativo altrettanto forte. La nostra proposta richiede di accentuare l’evoluzione congressuale del parlamento europeo, il cui compito dovrebbe essere quello di controllare e bilanciare l’esecutivo duale, non già di ”formarlo” come nei modelli parlamentari. Anche lo stesso Consiglio dovrebbe diventare una coerente istituzione legislativa, con prerogative speciali nei campi di policy che sono sensibili per i governi nazionali. E naturalmente tale legislativo bicamerale dovrebbe acquisire il controllo di un bilancio indipendente dell’Unione, oltre che il potere di iniziare la legislazione.

Così, l’Unione avrebbe finalmente un esecutivo, non già un governo. Quell’esecutivo verrebbe sottoposto al controllo di un legislativo il cui consent dovrebbe divenire necessario per legittimarne le decisioni. Ciò che conta è che tali relazioni istituzionali siano organizzate secondo modalità specifiche, eppure coerenti con la separazione dei poteri. Sappiamo, naturalmente, che in Europa la tradizione predominante è quella parlamentare (anche se non dappertutto, basti pensare alla diffusione del modello semipresidenziale alla francese). Ma sappiamo anche che in Europa la tradizione parlamentare non ha dovuto affrontare la sfida dell’unione di Stati. Tant’è che nell’unico caso europeo di unione di Stati (quello svizzero), quella tradizione non è stata utilizzata.

Le istituzioni sono al servizio dei processi politici, non sono dei fini in quanto tali. Trasformare il parlamentarismo in un dogma, in una proposta che prescinde dalla sua capacità applicativa, non è utile alla causa dell’integrazione europea. La separazione dei poteri può rispondere più efficacemente al dilemma che dobbiamo risolvere: come tenere insieme Stati membri che hanno dimensioni demografiche radicalmente diverse e le cui identità culturali e materiali sono così distinte da non farsi ricondurre alla stessa distinzione tra destra e sinistra? E proprio in considerazione di tale dilemma che nella nostra proposta non abbiamo mai utilizzato il termine “federalismo”. Infatti, per quest’ultimo, si possono intendere cose diverse, come diversi (radicalmente diversi) sono il federalismo che emerge in uno stato precedentemente accentrato che si decentra (come la Germania, il Belgio, l’Austria, il Canada, l’Australia) e il federalismo che nasce dall’aggregazione di Stati precedentemente autonomi e indipendenti (come gli Stati Uniti e la Svizzera). È un caso oppure risponde ad un’esigenza sistemica il fatto che i primi abbiano acquisito una forma parlamentare mentre i secondi no?

Se si collegano i due fatti da noi considerati come incontrovertibili, si può capire anche perché la nostra proposta ha voluto mantenere alcuni aspetti di “apertura” ad esiti diversi. Essa può essere applicata solamente all’eurozona oppure può aiutare a meglio strutturare l’intera attuale Unione Europea. Certamente, la separazione dei poteri costituirebbe una buona garanzia per gli Stati membri che temono un accentramento dell’Unione, tuttavia è anche vero che essa richiederebbe una base costituzionale per essere coerentemente realizzata, base che quegli Stati membri non desiderano che si costituisca. Qui si aprono nuovi scenari per l’Unione che sarebbe bene discutere con chiarezza, come avviene d’altronde in altri paesi (come la Germania o la Gran Bretagna). Scenari che dovrebbero essere al centro della discussione tra le forze politiche, anche per farci capire quale prospettiva l’Italia sosterrà con la vittoria dell’una o dell’altra coalizione politica.