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Una nuova leadership palestinese di fronte ai vecchi dilemmi

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Migliaia di palestinesi riempivano lo spiazzo all’interno del complesso della Muqata di Ramallah l’11 novembre scorso per celebrare i sei anni dalla morte di Yasser Arafat. Il presidente palestinese Abu Mazen ha salutato gli sforzi di riconciliazione tra Fatah e Hamas, sua tradizionale rivale, poi ha arringato la folla contro la costruzione di insediamenti israeliani nella Cisgiordania. Dopo di lui ha preso la parola Nasser al-Qudwa, nipote di Arafat, membro del Comitato centrale di Fatah ed ex rappresentante all’ONU per l’ANP, che ha ribadito l’accusa a Israele di aver avvelenato il leader palestinese.
 
La folla radunata sembrava di buon auspicio per gli sforzi di unità palestinese. Ma la realtà delle cose è un’altra: è in corso una guerra senza esclusione di colpi tra il presidente Abu Mazen e un certo numero di alti dirigenti di Fatah, un gruppo di “giovani” leoni che vuole farla finita con la “gerontocrazia di Ramallah”. I cinquantenni che scalpitano non sono una novità, ma mai come oggi hanno avuto una base così ampia e certamente appaiono meglio organizzati che nel passato. Uno scontro di una durezza finora sconosciuta che potrebbe portare a una scissione di Fatah, il più antico e numericamente consistente gruppo palestinese fondato da Yasser Arafat nel 1959, per decenni la spina dorsale della lotta armata contro l’occupazione israeliana. Ma la frustrazione per la gestione dei negoziati con Israele da parte di Abu Mazen potrebbe portare anche alla sua estromissione come leader sia dell’ANP e che dell’OLP. Il fallimento della mediazione americana per la “moratoria” sulle nuove colonie in Cisgiordania, nonostante le promesse di generosi aiuti a Israele, l’assenza di “un piano B” della Casa Bianca per far ripartire il negoziato, erodono la terra sotto i piedi dell’anziano presidente palestinese. Questi “giovani leoni” rimproverano a Abu Mazen l’incapacità di affrontare lo stallo dei negoziati di pace, il pilastro centrale della sua piattaforma politica, la cattiva gestione del processo di pace, l’incapacità di strategie alternative come la resistenza non violenta nei territori occupati e le campagne internazionali sul piano diplomatico e legale.

Primo tra gli “ammutinati” è Mohammed Dahlan, 49 anni, un uomo forte di Fatah. Un tempo considerato uno dei delfini di Arafat e leader de facto della striscia di Gaza fino al golpe islamico del 2007, era assente dal commemorazione ufficiale del presidente scomparso sei anni fa. Dahlan era apparentemente volato all’estero solo il giorno prima del ritorno di Abu Mazen da un viaggio nel Golfo Persico, così da evitare un incontro ad alta tensione con il presidente palestinese. Nemico giurato di Hamas, Dahlan ha sempre avuto ottimi rapporti con gli Stati Uniti, soprattutto  durante l’amministrazione Clinton. Lo scontro con Dahlan ha superato le antipatie personali, e Abu Mazen ha fatto chiudere la rete tv Palestina domani – nella quale Dahlan è coinvolto – che avrebbe dovuto avviare le sue trasmissioni con il nuovo anno. Decine di uomini della Sicurezza preventiva, vicini a lui, sono stati arrestati all’inizio di dicembre, e alcuni ufficiali sono stati rimossi nel timore che si stesse preparando un colpo di mano per rovesciare l’attuale dirigenza. Alla cerimonia in ricordo di Arafat era assente anche un altro importante leader e duro critico della presidenza dell’ANP, l’ex generale Jibril Rajub, 57 anni, già capo della Sicurezza preventiva in Cisgiordania fino al 2002 e oggi presidente del Comitato Olimpico palestinese. Un uomo molto influente e rispettato che non fa mistero del suo pensiero: Abu Mazen ha fallito.

I “giovani leoni” sembrano aver scelto Nasser al-Qudwa come prossimo leader palestinese. Del resto, il mandato di Abu Mazen, 75 anni, è scaduto a gennaio 2009 ma egli è rimasto al potere per l’impossibilità di svolgere regolari elezioni presidenziali a seguito della spaccatura con Hamas – che, nel 2007, con la forza ha preso il controllo della striscia di Gaza e del suo milione e mezzo di abitanti. A differenza di Dahlan, Qudwa ha pochi nemici all’interno di Fatah. La sua linea di sangue con Arafat pesa molto nella considerazione dei palestinesi, e le sue mani sono viste come pulite dalla corruzione che ha macchiato altri funzionari palestinesi. L’esperienza maturata negli anni al Palazzo di Vetro di New York ne fa poi anche un navigato diplomatico nelle relazioni internazionali.
 
Le critiche ad Abu Mazen, sono condivise da un altro importante leader palestinese, Marwan Barghouti, 51 anni, arrestato e condannato all’ergastolo dagli israeliani per il suo ruolo nella sanguinosa Intifada del 2000 ma con grande seguito fra la popolazione palestinese. Il suo stretto collaboratore Qaddura Fares tende però subito a ribadire che per Barghouti il presidente deve essere scelto dal popolo, e quindi – è un chiaro avvertimento ai “cinquantenni” – niente colpi di palazzo ma un nuovo presidente con elezioni chiare e trasparenti.

Certo questo gruppo di “giovani leoni” è meno favorevole alle trattative con il governo Netanyahu, ritenendo che non sia davvero interessato alla pace con i palestinesi. E se anche l’America di Obama dovrà ricominciare a tessere la sua tela, sarà difficile accontentare la leadership emergente solo con promesse vaghe. “La stragrande maggioranza del Comitato centrale di Al Fatah è stufa di questo andazzo,” dice con garanzia dell’anonimato uno dei componenti del massimo organo del partito.
  
Dall’altra parte la “vecchia guardia”, cioè i sostenitori di Abu Mazen, ribatte che il presidente ha invece una solida base politica interna, specie dopo la scelta “della fermezza”: quella di non riprendere i colloqui con gli israeliani senza un blocco alla costruzione degli insediamenti nei territori occupati. “Abu Mazen ha assunto una posizione forte e oggi ha più sostegno di due-tre mesi fa,” spiega nel suo elegante ufficio Nabil Shaath, 72 anni, ex premier e ora stretto collaboratore del presidente palestinese. I “giovani leoni”, conclude, non sono motivo di preoccupazione per Abu Mazen.

Sarà. Ma resta il fatto che negli ultimi 10 mesi Abu Mazen ha minacciato quattro volte di dimettersi, sente che la sua “presa” sui massimi organi dirigenti palestinesi è meno salda. La percezione nelle vie di Ramallah è che una stagione durata trent’anni sta per chiudersi per l’ANP, per l’OLP, per Fatah e per Abu Mazen. Una giovane generazione di leader da lungo tempo desiderosa di succedergli adesso ha trovato il suo candidato che ha tutte le carte in regola e i legami di sangue giusti. È solo questione di tempo.