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Un primo bilancio sul bis di Cameron, il leader in sintonia con gli inglesi

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La vittoria dei conservatori è stata davvero inattesa. Ora David Cameron può scaricare i liberali e governare da solo; la maggioranza parlamentare è molto risicata, ma la situazione ben più rosea delle previsioni, secondo le quali una coalizione sarebbe stata inevitabile. Inoltre, Nick Clegg, Ed Miliband e Nigel Farage rimetteranno i loro incarichi ai rispettivi partiti, aprendo un periodo di incertezza nell’opposizione che per un certo periodo renderà più forte il potere conservatore.

La campagna: efficace il messaggio di Cameron sull’economia, che cresce con numeri che sono l’invidia di molte capitali europee: il fatto che i benefici reali non siano ancora percepiti dalla popolazione ha rafforzato lo slogan del finish the job. I sondaggi, che avevano previsto pareggio, certificavano comunque quanto gli inglesi apprezzassero la gestione economica di Cameron, preferendola alle ricette proposte dai laburisti in campagna elettorale.

Efficace anche il discorso più radicale contro l’immigrazione e critico nei confronti dell’Unione Europea, che si è sintonizzato con i coincidenti umori dell’elettorato e di molti media. Negli ultimi due anni Cameron ha cercato di soffiare a Farage il monopolio sull’antieuropeismo e sulla xenofobia; sembrava non ci fosse riuscito alle europee dello scorso anno quando l’UKIP si impose come primo partito con il 27,5%, ma ci è evidentemente riuscito ora. Il 36,5% ottenuto dei conservatori non è una vittoria strabiliante, ma il 12% dell’UKIP è una sconfitta certa. Lo stesso Farage è stato sconfitto nel suo collegio di South Thanet dall’avversario conservatore, che lo ha staccato di sei punti, e manderà a Westminster un solo deputato – quando l’obiettivo iniziale era una decina.

Tra i laburisti sconfitti si è già aperta la caccia al colpevole. Miliband ha avuto il suo momento d’oro due-tre anni fa, ma la sua immagine è andata inesorabilmente appannandosi. Il Labour non ha saputo farsi percepire né come una vera alternativa – il programma di difesa dello stato sociale e di uscita dall’austerità è stato molto vago – né come una buona alternativa: molti hanno creduto che i laburisti al governo avrebbero solo aumentato le tasse e lasciato tutto com’è.

In sintesi, la sconfitta laburista si spiega con un posizionamento ambiguo o poco convincente per l’elettorato su molti dei temi principali della campagna e dell’attualità inglese: l’economia; la politica sociale e del lavoro; la Britishness, tema restato in sottofondo a ogni discussione e proposta: i rapporti con la Scozia, con l’Unione Europea, con gli stranieri.

Lo Scottish National Party è l’altro vincitore delle elezioni. Il partito di Nicola Sturgeon, leader che è piaciuta molto all’elettorato laburista, ha vinto 56 collegi elettorali su 59 in Scozia, che del Labour un tempo era roccaforte. Sono scozzesi Tony Blair, Gordon Brown, Alastair Campbell. Tuttavia, non avrà in mano le chiavi del governo, perché un’alleanza con i conservatori è esclusa – poteva succedere se avessero vinto i laburisti. Ma è una vittoria difficile da capitalizzare, se non nell’ulteriore radicamento locale dell’SNP ai danni del Labour, e nella sua trasformazione nel vero e proprio “Partito della Scozia”.

Vediamo i flussi di voti. Laburisti e conservatori ottengono all’incirca gli stessi voti di cinque anni fa: dunque l’opposizione dei laburisti è stata inefficace. Sono invece i liberali che crollano dal 22,8 al 7,7 (-15%): i loro voti sono andati in buona parte ai conservatori e in parte minore ai laburisti. I laburisti in compenso hanno perso a sinistra verso i Verdi, e verso l’SNP, in tutto circa il 6%. Rispetto alle legislative di cinque anni fa, i conservatori hanno perso molti voti verso l’UKIP (che dal 3% sale al 12,5%). Ma rispetto alle europee dello scorso anno Cameron ha recuperato a Farage alcuni dei suoi elettori “infedeli” e in generale molti astensionisti sono tornati a votare Tory.

Non c’è stato il temuto crollo del bipartitismo: i due principali partiti continuano a rappresentare due terzi di chi partecipa alle elezioni. Il bipartitismo è anzi più forte considerando che le “terze forze” sono aumentate di numero (liberali, UKIP, SNP, Greens) ma sono diminuite di peso specifico.

Si apre ora un capitolo ancor più difficile per i rapporti tra Gran Bretagna e Unione Europea: Cameron ha promesso il referendum sulla permanenza nell’UE se le condizioni accordate al Regno Unito non verranno riviste – un referendum che i laburisti avevano escluso. I partner europei non hanno alcuna voglia di rivederle in maniera sostanziale; Londra d’altronde è assente da tutti i dossier e i negoziati importanti da circa due anni ed è più isolata che mai a Bruxelles. Se l’obiettivo di Cameron è rinegoziare il principio di libera circolazione delle persone nella sua interezza, Angela Merkel ha detto già di no; se il Premier inglese si accontenterà di qualche risultato più piccolo anche se forse simbolico, gli altri Stati europei sono disposti a trattare. 

È una situazione davvero paradossale per un Paese che politicamente si è allontanato dal resto del continente come forse non mai dalla fine della seconda guerra mondiale, ma che economicamente e socialmente è sempre più caratterizzato dagli stessi problemi che affliggono tutta Europa: il dibattito sul modello di crescita e di solidarietà sociale, la sfiducia e il disincanto dell’opinione pubblica verso la classe politica, il nazionalismo e le spinte indipendentiste, il conflitto di sovranità con Bruxelles.