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Un focolaio di crisi macedone in Europa

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La crisi già in corso nell’ex Repubblica Jugoslava di Macedonia (Fyrom) rischia davvero di minare la stabilità dei Balcani? La probabilità c’è ed è alta. Il caos ha raggiunto la soglia d’allarme dopo gli avvenimenti del 9 maggio scorso, quando vicino a Kumanovo, nel nord del paese, non distante dal confine con la Serbia e con il Kosovo, ci sono stati scontri tra la polizia e un gruppo di uomini armati, proseguiti in parte anche il giorno seguente e conclusi con un bilancio di 22 morti.

Dopo i primi interrogatori, le autorità macedoni sono arrivate alla conclusione che l’attacco sarebbe stato organizzato dagli indipendentisti albanesi, un gruppo estremista di cui fa parte ancora oggi ciò che rimane dell’Esercito di liberazione del Kosovo – l’UCK, organizzazione terroristica nata durante gli anni della guerra del Kosovo culminata con l’intervento della NATO nel 1999.

La conseguenza di quegli scontri è stata un terremoto interno al governo, con migliaia di cittadini scesi in piazza contro il premier conservatore Nikola Gruevski. E mentre l’UE prova a mediare con risultati non entusiasmanti, sullo sfondo si intravedono le tante crisi irrisolte nella regione, riaccese da un nuovo protagonismo geopolitico di Mosca, che di contro accusa l’Occidente di fomentare la rivolta.

Il quadro è quanto mai complesso. Si assiste, infatti, ad una crescita dell’influenza regionale della Russia, che torna a spaziare dal Mediterraneo all’Ucraina per uscire dallo scomodo angolo in cui si è cacciata proprio con gli eventi ucraini. Gli strumenti della propaganda e della “guerra di narrativa” del Cremlino, ha raccontato più volte in queste settimane la stampa internazionale, si sono evoluti, puntando a forme di soft power alquanto sofisticato. Oltre alla classica informazione di parte (o vera e propria disinformazione rispetto ad alcuni eventi sul terreno) ci sono altri aspetti preoccupanti: non più e non solo proiettili e granate, ma soprattutto pressioni energetiche, una presenza disinvolta nei media internazionali, un fiume di soldi destinato a vari partiti europei di ogni paese e colore, fino a innovative forme di finanziamento, come il crowdfunding (una dozzina di organizzazioni dagli apparenti scopi umanitari sarebbero in realtà strumenti per raccogliere denaro da girare ai combattenti filorussi nell’Est del paese).

Quel che accade a Kiev non è infatti un caso isolato, ma va collocato in un contesto più ampio. Il governo guidato da Gruevski, oltre ad essersi caratterizzato per una forte vicinanza alla Russia, pare aver preso la piega di un regime autoritario. Ragioni che hanno spinto le latenti tensioni interne a crescere.

Ciò è dovuto a molti fattori. Ci sono ancora, infatti, troppe questioni sospese, che rischiano di esplodere nuovamente. C’è l’ostilità greca, mai sopita, nei confronti della Macedonia. E c’è poi la problematica, tutta interna a Skopje, di una minoranza albanese che non ha mai accettato di essere considerata tale. Il conflitto in Macedonia nel 2001, quando l’UCK attaccò le forze di sicurezza del paese, fu in parte un’anticipazione di quello a cui assistiamo oggi. Questa situazione, oltre che nella Fyrom, potrebbe avere importanti riverberi in Kosovo.

Sullo sfondo ci sono poi grandi questioni economiche, ma anch’esse dettate da ragioni geopolitiche, come quelle del cosiddetto corridoio VIII. Si tratta di uno dei dieci “corridoi paneuropei” progettati per favorire il trasporto di persone e merci nell’Europa centrale e orientale. Nei piani unisce l’Italia ad Albania, Macedonia e Bulgaria. È, per altri versi, un modo per ridurre la dipendenza europea dalle infrastrutture energetiche russe, attraverso l’integrazione di quei paesi nel tessuto economico e sociale dell’UE. Basti ricordare che tanto il South Stream – prima che venisse archiviato – quanto il Turkish Stream, passano dal territorio di Skopje.

È in tale contesto che va letto anche l’atteggiamento degli Stati Uniti: il 29 maggio, il segretario al Tesoro americano, Jacob Lew, ha denunciato i rischi di un tracollo greco. Non si riferiva solo a un piano economico, ma anche geopolitico. E aveva ragione. Le questioni sono terribilmente intrecciate e non si può guardare alla crisi ucraina e all’intero quadro d’instabilità e attriti tra Occidente e Russia relegando tutto a un aspetto di cassa. Gli ultimi fatti lo dimostrano. Un esempio su tutti: le dimissioni di alcuni ministri in Macedonia e la rimozione del capo dei servizi segreti, Sasho Mijalkov, sarebbero apparentemente legati – secondo l’opposizione socialdemocratica – alla banda protagonista degli scontri a Kumanovo, che ha fra i suoi elementi ex soldati dell’UCK, che, a detta di alcuni analisti, potrebbero essere strumentalizzati per destabilizzare ulteriormente il paese.

Beninteso: la situazione in Macedonia non rischia di diventare tout court la copia di quanto avviene in Ucraina. Sono due paesi con caratteristiche troppo differenti. Kiev è estesa e con una presenza filorussa che è maggioranza in alcune parti della nazione. Skopje molto più piccola e con una componente albanese, che resta una forte minoranza. Può essere però un grande problema per la stabilità regionale. Una dichiarazione congiunta di USA e UE, assieme a Italia, Francia, Germania e Regno Unito ha denunciato l’11 maggio scorso la situazione del paese, ponendo seri dubbi sull’impegno del governo per rispettare i principi democratici e i valori della comunità euroatlantica. Non è un caso. La situazione interessa o dovrebbe interessare Bruxelles e principalmente Roma. I Balcani sono stati nel primo dopoguerra – e lo sono ancora – il ponte dell’Italia verso l’Est. Per noi quella regione è uno spazio vitale, oltre che il nostro più prossimo orizzonte geopolitico.

In ogni caso la vicenda macedone, se la si pensa come un tessuto che fa parte del più generale ordito sconvolto e disordinato che giunge sino all’Ucraina, non può non incitare tutte le nazioni in campo (perché l’Europa in quanto potenza internazionale in queste crisi manifesta la sua impotenza) a pensare a come uscire da questa impasse. Una soluzione indicativa, sostenuta da alcuni osservatori, potrebbe essere quella di dar vita a un Congresso internazionale di Pace simile a quello che fu nel 1878 il Congresso di Berlino. Esso, allora, moderò l’influenza russa sui territori turco-slavi che era seguita alla sconfitta della Turchia da parte della Russia poco tempo prima, limitandone il trionfo e riassicurando l’Austria e la Germania. Un ruolo cruciale lo svolse l’Inghilterra, che incoraggiò l’accordo e un appeasement nei confronti tanto della Germania quanto della Russia, favorendo di fatto il successivo accordo franco-russo che ristabilì un equilibrio di potenza durato poi sino al 1914.

Oggi il ruolo degli USA potrebbe essere duplice: da un lato sì quello di rassicurare i paesi baltici e la Polonia, raccolti sotto l’ombrello dell’Alleanza atlantica, di tenere alta la guardia sulle sanzioni come elemento di deterrenza, e di pretendere il pieno rispetto dell’Accordo di Minsk sull’Ucraina dell’anno scorso (che prevede il cessate il fuoco, il disarmo delle bande armate e la ripresa dei negoziati, punto fondamentale per riprendere ogni serio rapporto con la Russia); ma dall’altro Washington potrebbe anche adottare una strategia simile a quella inglese del tempo qui ricordato, favorendo una distensione, resa più semplice da una Russia economicamente in debito di ossigeno e ansiosa di essere coinvolta in alcuni teatri di crisi, come quello mediorientale. Nuove tensioni sono infatti all’orizzonte, come quella che potrebbe esplodere con i colloqui in corso tra Cipro e Russia in merito alla costruzione di una base militare russa nell’isola.

Episodi rilevantissimi, ai quali si somma la mancanza di una visione diplomatica ad ampio raggio da parte di tutti gli attori in campo, con i dovuti distinguo. Bruxelles per la sua irrilevanza rispetto alle iniziative in ordine sparso dei paesi-membri; Mosca per avere un atteggiamento che per certi versi ricalca ancora metodi dello scorso secolo, come in Crimea; e Washington per le responsabilità che la oggettiva logica di superpotenza, militare ed economica, le assegna, che si desideri o no.

Su questo sfondo dinamico e preoccupante, quello macedone è un focolaio forse di piccole dimensioni ma da monitorare con grande attenzione.