Donald Trump si è presentato come un outsider della politica. Uno strano outsider, a dire il vero, viste le sue attività imprenditoriali di alto profilo che gli hanno garantito stretti rapporti con le élites del Paese. In ogni caso, la relativa inesperienza è stata usata dal candidato repubblicano come un cavallo di battaglia invece che una carenza da colmare. La figura che è emersa è quella di una sorta di apprendista vincente nell’arena politica – con un talento di businessman che lo ha reso ancora più famoso al grande pubblico grazie all’intuizione del reality show televisivo “The Apprentice”.
Ora, l’apprendista trasformatosi in candidato di successo ha di fronte una nuova professione, e dobbiamo tutti sperare che impari in fretta – o che affini, nella migliore delle ipotesi – i trucchi del mestiere. Ha un problema specifico che molti suoi predecessori non hanno avuto: i demoni a cui ha fatto appello per diventare Presidente.
In questa campagna elettorale dai toni durissimi, Trump ne ha evocati molti: quello della cospirazione politica e mediatica (contro di lui anzitutto, ma anche contro l’americano medio); quello della cospirazione economica nel contesto della globalizzazione (a tutto vantaggio di una ristretta fascia di ricchi super-istruiti); e infine quello della paura (soprattutto nei cittadini bianchi) per un futuro demografico e culturale che si vuole in pratica fermare.
Sono tutti demoni che torneranno a trovarlo alla Casa Bianca, quando ad esempio il Presidente potrebbe aver bisogno di alcuni Democratici per riunire il Paese in una situazione di emergenza, o quando magari le tensioni sociali richiederanno una capacità di compromesso che finora Trump non ha dimostrato, o ancora se i suoi elettori finissero per restare delusi dalle sue molteplici promesse e trovassero qualche “campione” più radicale di lui. È chiaro infatti che chi attacca l’establishment per sostituirlo può diventare a sua volta vittima del populismo.
Il neo-Presidente dovrà intanto essere molto abile – e forse perfino umile – per conquistarsi almeno l’acquiescenza dei tanti americani che proprio non riescono a riconoscersi nei suoi tratti caratteriali e nei suoi modi di comunicare. Ha rotto gli argini a volte irritanti del linguaggio “politically correct”, ma probabilmente neppure lui sa cosa c’è oltre quegli argini. Non potrà certo aspettarsi che il clima del dibattito pubblico sia cortese e le polemiche in punta di fioretto, dopo aver accusato circa metà del Paese di odiare e di voler opprimere l’altra metà. L’insofferenza del candidato Trump per varie regole del confronto politico e della comunicazione pubblica è sembrata davvero istintiva, ma comunque da Presidente degli Stati Uniti dovrà adottare maggiore disciplina e autocontrollo per evitare incidenti diplomatici – piccoli e grandi, interni e internazionali.
Il pragmatismo dell’imprenditore Trump potrebbe essere decisivo anche per la sua capacità di imparare “sul lavoro” nel ruolo di Presidente e di Comandante in Capo. L’esito dell’8 novembre è stato una sorpresa per moltissimi – americani e non – ma ora c’è da augurarsi che il Presidente-eletto abbia ragionato in anticipo su cosa fare una volta raggiunta la Casa Bianca, e che impieghi al meglio il periodo fino alla sua inaugurazione il 20 gennaio.
La “transizione” (caratteristica costituzionale americana che appare sempre curiosa) è l’occasione per ricalibrare il messaggio e i toni, studiare i dossier più spinosi e complessi, precisare i programmi di policy; e naturalmente mettere assieme una squadra di governo che dia garanzie contro le tentazioni erratiche dimostrate più volte da Trump in campagna elettorale. Gli Stati Uniti hanno bisogno di un capo dell’esecutivo che comprenda appieno anche i vincoli imposti dalla sua grande responsabilità.