Se avesse vinto Hillary Clinton i governi europei avrebbero avuto di fronte uno scenario difficile in politica estera (confronto con la Russia, escalation in Siria) ma facile in politica interna: la vittoria di un candidato tipico dell’establishment atlantista. Con l’affermazione di Trump è vero l’opposto: il “rischio” politico legato alla vittoria di The Donald è collegato anzitutto alle dinamiche interne, con il timore di un contagio fra le due sponde dell’Atlantico. Non è un caso che si freghino le mani Matteo Salvini e Beppe Grillo, Viktor Orban e Marine Le Pen, Nigel Farage e Geert Wilders: con Trump alla Casa Bianca – questo il ragionamento – il vento anti-sistema ha ormai espugnato il cuore del sistema occidentale e, dopo la Brexit, investirà anche le capitali del Vecchio Continente.
La conclusione è troppo semplice per essere vera: rileggendo Tocqueville e sapendo qualcosa delle differenze fra i sistemi elettorali di Stati Uniti e Francia, Marine Le Pen sembra destinata a restare, come Hillary Clinton, una presidente mancata. Ma qualcosa di fondato c’è: il caso americano è una specie di Brexit all’ennesima potenza, dimostrando che quando il malessere sociale si combina alla distanza o alla indifferenza delle élite, le scelte politiche tradizionali possono essere spazzate via. Estremizzando un po’ l’argomento, per la maggior parte dei governi europei Donald Trump è il segnale di un rischio esistenziale.
In politica estera il segnale è diverso. Trump non è un internazionalista classico, a differenza della tradizione repubblicana del dopoguerra. È un nazionalista che crede nella “America-first” – e nell’”America-great”. Una visione del genere può oscillare dall’isolazionismo (ma che nei tempi di oggi è al massimo un “retrenchment”, un ripiegamento parziale) all’interventismo selettivo e muscolare, nel nome dei valori patriottici e degli interessi americani. E con tanti saluti alle istituzioni internazionali.
Walter Russel Mead, storico delle varie correnti della politica estera americana, definirebbe il Trump candidato un “jacksoniano”; vedremo se lo sarà anche il Trump presidente – e qualcosa di più capiremo dal suo team di politica estera.
In questa concezione, l’Europa non è particolarmente amata ed è lasciata di fronte alle sue responsabilità dirette. Cadranno i nostri alibi. Da una parte, infatti, la politica economica di Trump ridurrà ulteriormente gli spazi perché l’America possa funzionare da “locomotiva”; lo si vedrà al tavolo del G7, a presidenza italiana. Dall’altra, Trump non intende più sostenere oneri sproporzionati nella NATO. Si dirà che è una vecchia storia. Ma Trump potrebbe andare fino in fondo: agli europei verrà chiesto se intendono tenere in vita la NATO. Se è così dovranno pagarsela. In tempi di bilanci asfittici non sarà semplice, ma avrà almeno un vantaggio: costringerà l’Europa a prendere finalmente sul serio la sicurezza e la difesa comune.
Si delinea così un cambiamento di fondo: la presidenza Trump sembra destinata a segnare la fine definitiva della “pax americana”, l’ordine internazionale costruito dopo la seconda guerra mondiale e sopravvissuto in modo sfilacciato al crollo del Muro di Berlino. Per la prima volta, anche se in estremo ritardo, l’Europa è obbligata a crescere. Se non lo farà, nel dopo Brexit e con Trump, non sarà mai un attore rilevante. E si disgregherà.
Fa parte della rivoluzione di Trump una visione diversa della Russia. In una fase di quasi guerra fredda, Trump è convinto di potere raggiungere un accordo con Vladimir Putin. I precedenti non sono incoraggianti: sia George W. Bush che Barack Obama avevano tentato un “reset” iniziale con Mosca, per poi fallire. Trump potrebbe avere un vantaggio ideologico: è privo di quel tasso di “russo-fobia” tipico della diplomazia americana e crede, come Putin, nella logica degli accordi fra uomini forti. Il problema è che i margini di compromesso con Mosca sono stretti, anche per un Presidente americano che sia disposto a sacrificare la Crimea, a considerare secondario il destino dell’Ucraina, e a contemplare una futura spartizione della Siria. Per una parte degli europei (Italia e Germania in testa) esistono dei benefici (economici). Per un’altra dei rischi (di sicurezza). Per tutti, la realtà è che una trattativa del genere può passarci letteralmente sulla testa. Le differenze di interessi fra i paesi dell’Ue, in materia di Russia, restano molto rilevanti: l’Europa non avrà mai una politica estera comune se non tenterà di ricomporle.
Se noi europei avremo a che fare con un’America-first, Trump avrà a che fare con un’Europa assorbita da un lungo ciclo elettorale e dalla gestione della Brexit. L’inclinazione del nuovo presidente sarà di tenere agganciata Londra (la sua prima telefonata è stata per Theresa May) senza perdere Berlino. Dopo avere battuto la prima donna americana, avrà di fronte due donne europee. Speriamo che prevalga Il buon senso.
In un sistema internazionale che definiamo multipolare e che in realtà è semplicemente anarchico, il futuro delle democrazie occidentali è più a rischio di quanto sia mai stato da un secolo a questa parte. Riconoscerlo è l’incentivo indispensabile per continuare a cooperare.