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Tra Iran e Siria, gli interessi contrastanti di Obama

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L’insediamento del presidente Hassan Rohani in Iran, a inizio agosto, è anche l’occasione per Washington di valutare le opzioni disponibili per uscire dallo stallo ormai pluriennale nei rapporti con Teheran. Ben difficilmente però cambieranno le priorità che hanno finora determinato le maggiori scelte regionali di Barack Obama nel Medio Oriente e nel Golfo, in particolare rispetto allo stesso Iran ma anche rispetto la Siria.

Il successore di Mahmoud Ahmadinejad è stato eletto anche per effetto di una forte volontà popolare di limitare per quanto possibile il predominio assoluto delle fazioni più conservatrici dell’establishment iraniano. Rohani, tuttavia, è senza dubbio un esponente del regime che intende garantire la sopravvivenza della Repubblica Islamica: sebbene sia plausibile una sua maggiore propensione al negoziato e dunque ci si possa aspettare alcuni compromessi in politica estera, gli eventuali cambiamenti avverranno pur sempre nei limiti della struttura di potere e di interessi fondati sul clero e sulla Guida suprema. Si tratterà di vedere quanto spazio ciò lascerà a qualche concessione di sostanza agli Stati Uniti sulla questione nucleare: è qui infatti che si decidono i rapporti tra Washington e Teheran, anche se in realtà i temi sul tavolo riguardano soprattutto gli assetti regionali e sono solo in parte connessi direttamente al destino del programma nucleare.

Il problema è che un qualsiasi accordo duraturo richiede l’adozione di una prospettiva nuova su tutti gli equilibri regionali, in cui l’Iran sarebbe a pieno titolo una potenza dominante (se non la potenza predominante) del Golfo, con una forte proiezione di influenza verso l’Iraq e il Libano, oltre che probabilmente verso l’Afghanistan. A sua volta, un tale ruolo ridurrebbe in modo drastico l’influenza dei tradizionali alleati americani, a cominciare dall’Arabia Saudita. Difficile immaginare che Obama accetti una simile rivoluzione strategica di buon grado. È proprio in questa ottica che vanno analizzate le opzioni riguardo al conflitto siriano: finora la vera e indiscussa priorità di Washington è stata appunto l’equilibrio regionale (tra Israele e i suoi maggiori vicini, tra sciiti e sunniti; tra Iran, Turchia e mondo arabo), e ciò ha posto in secondo piano la possibile riduzione dei danni nella tragedia siriana, nonostante il fatto che le dimensioni del disastro umanitario e civile della Siria siano ormai purtroppo chiare. In estrema sintesi, si può dire che il presidente degli Stati Uniti – le cui scelte sono tuttora potenzialmente in grado di alterare l’esito della guerra civile-regionale in corso in Siria – non ha di fronte a sé un dossier siriano in quanto tale, ma piuttosto un groviglio di questioni mediorientali. Da quel groviglio emerge un singolo obiettivo dominante per gli interessi americani: il contenimento del “problema Iran”, che passa anzitutto per l’esigenza di evitare il superamento della fatidica “soglia nucleare”. Ciò non perché gli Stati Uniti sarebbero mortalmente minacciati da un Iran dotato di (poche, inizialmente) armi testate nucleari, ma perché l’attuale regime iraniano sfrutterebbe lo status nucleare per conquistare un ruolo incompatibile con l’attuale assetto regionale. Le incognite di un tale scenario sono troppe per essere esplorate con freddezza e pragmatismo, a maggior ragione nel clima di grandissima incertezza generato dalle rivolte arabe del 2011 e poi, appunto, dall’incancrenirsi della crisi siriana.

È come se l’America di Obama si fosse incagliata in una secca strategica: un movimento in direzione dell’intervento in Siria (presumibilmente indiretto, ma con un sostegno concreto, sistematico ed esplicito alle forze anti-Assad e con l’elaborazione di un qualche piano per la sistemazione del paese nel post-Assad) rischia di trascinare la regione contro gli scogli iraniani (avvantaggiando Teheran in termini di penetrazione regionale e forse prestigio, e costringendo Washington a spendere capitale politico prezioso). Mentre gli esiti di un intervento siriano sono tutt’altro che certi, i costi sono evidenti: oltre ai rischi di finire risucchiati in un’operazione militare sul terreno, anche soltanto acquisire l’acquiescenza diplomatica di Mosca e Pechino renderebbe probabilmente impossibile mantenere compatto il “fronte delle sanzioni” contro l’Iran. Nel frattempo l’attenzione internazionale si sposterebbe ovviamente proprio sulla Siria, dove comunque gli Stati Uniti non possono sperare di essere l’unico protagonista (forse neppure il più influente) di un negoziato che in ogni caso sarà lungo e complicato. Insomma, per Obama si profilano rischi sicuri e immediati e invece guadagni molto incerti e dilazionati.

Per uscire dalla secca strategica, resta allora l’opzione Rohani: è stato ricordato da più parti che il neo-presidente è l’unico negoziatore iraniano ad aver raggiuto un accordo parziale sul nucleare con i paesi occidentali (ottobre 2003). Ogni valutazione deve però essere assai prudente a questo stadio: anche se Rohani dovesse fare vere aperture a Washington – presumibilmente sui tempi e i modi del processo di arricchimento dell’uranio più che sul diritto iraniano di sviluppare queste capacità tecniche – sarà necessaria pazienza e immaginazione negoziale per evitare l’ennesimo collasso delle trattative, oltre a una certa collaborazione almeno passiva da parte israeliana. È davvero una combinazione difficile da realizzare, e metterà alla prova la massima per cui la politica è l’arte del possibile.