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TPP: una carta in più per USA e Giappone

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Perdurando le incertezze sulle effettive ricadute economiche del TPP (Trans-Pacific Partnership, con dodici paesi partecipanti ad oggi), il dato più rilevante dell’accordo raggiunto il 5 ottobre ad Atlanta è il rafforzamento dell’asse Washington-Tokyo. Non è detto che il TPP si ponga in aperto antagonismo con la Cina, intenta con successo da anni a erodere le posizioni acquisite in Asia dagli americani dopo la seconda guerra mondiale, ma comunque costituisce un contrappeso forte all’avanzata dell’influenza di Pechino. In un certo modo, a condizione di superare lo scoglio delle ratifiche, il nuovo accordo traccia le linee di una inversione di tendenza che darebbe sostanza a quella ristrutturazione della politica americana verso l’Asia auspicata dall’amministrazione Obama.

L’idea del TPP era nata quasi in sordina con negoziati a otto in cui l’Asia aveva un ruolo pressoché insignificante (vi partecipavano solo Vietnam, Singapore e Brunei). L’accorpamento della Malesia, nel 2010, accrebbe la presenza quantomeno del blocco ASEAN, ma poi l’arrivo di Messico e Canada (2012) faceva ritornare il pendolo verso il continente americano. Infine la svolta decisiva: l’adesione nel 2013 del Giappone, il cui peso economico è pari a quello combinato di tutti gli altri aspiranti partner degli Stati Uniti. Con il Giappone il TPP – o almeno il negoziato per crearlo – cambiava natura anche perché, con il governo di Abe Shinzo, il Giappone era impegnato in una trasformazione radicale del suo modo di pensare se stesso e i rapporti con il resto del mondo stravolgendo due assiomi del passato: il protezionismo (specialmente del settore agricolo) e il pacifismo assoluto.

La centralità di Tokyo nel processo di formazione del TPP è diventata via via sempre più evidente. Il negoziato, nelle sue parti più propriamente commerciali, si è trasformato in larga misura in un confronto a due con Washington, ponendo al centro il mercato dell’auto. Ad Atlanta poi la soluzione per uno degli ostacoli maggiori all’intesa – il periodo di validità dei brevetti dei biomedicinali – è stata trovata sulla base della proposta del Giappone: otto anni contro i dodici richiesti dalle case farmaceutiche sostenute da Washington e i cinque anni voluti dai paesi più poveri, ansiosi di accedere ai “generici”.

Ma tutto il peso del Giappone traspare in particolare dalla tempistica dell’intesa. La relazione temporale con la cosiddetta crisi cinese scoppiata a fine estate appare infatti più che altro casuale, sebbene non si possa escludere che essa abbia lasciato qualche traccia e spinto i paesi abituati a destreggiarsi tra Cina e Stati Uniti ad acquisire qualche merito in più presso questi ultimi. Molto di più hanno contato le priorità di Abe che, archiviata con l’approvazione della nuova legislazione sulla sicurezza la pratica del proactive pacifism, doveva tornare a occuparsi di economia. E sull’argomento a Tokyo si avvertiva la necessità di non perdere tempo, specie per quanto riguarda l’avvio di riforme che facilitassero la conquista di nuovi mercati in Asia. Non solo infatti la Cina procede con metodo e concretezza a costruire un sistema di interdipendenze che marginalizza Giappone e Stati Uniti: Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP), Banca asiatica per le Infrastrutture e gli Investimenti (AIIB), Via della seta marittima e terrestre. Ma si mostra imbattibile anche nei settori su cui maggiormente punta il Giappone per rilanciarsi, come il nucleare civile o le infrastrutture per i trasporti. Uno smacco bruciante è stato per i giapponesi nei giorni scorsi la decisione dell’Indonesia di affidarsi a Pechino per la sua prima ferrovia ad Alta Velocità. È stato subito usato dai sostenitori di Abe per dimostrare la necessità di dotarsi di uno scudo protettivo come il TPP, oltre che per modernizzare il sistema dei crediti all’esportazione e rafforzare la cooperazione tra settore pubblico e privato.

Non c’è dubbio che, se Abe aveva fretta, a premere per un’intesa siano stati soprattutto i negoziatori americani, portati a pensare che quella di Atlanta fosse un’ultima spiaggia prima dell’inevitabile fallimento. L’incombere dell’inizio della campagna elettorale in vista della scadenza del novembre 2016, e i tempi lunghi dei processi parlamentari che dovrebbero portare alla ratifica dell’accordo, non davano scampo a Obama. Perdere altro tempo significava avere lottato invano, la primavera scorsa, anche per il fast track, la procedura che impedisce di presentare emendamenti all’accordo e il cui raggiungimento era stato considerato indispensabile per chiudere la partita. I Repubblicani, che si erano piegati al fast track in nome dei princìpi del liberismo, non potrebbero in campagna elettorale concedere successi a Obama, anche se non volessero accodarsi alla furia conservatrice di Donald Trump (che ha definito l’accordo “terrificante”). Quanto ai Democratici, già i candidati alla nomination, con in testa Hillary Clinton, mostrano una avversione che si spinge – nel caso di Bernie Sanders – a considerare il TPP un regalo alle multinazionali e lasciano Joe Biden solo a difendere l’operato di Obama.

Dunque è emersa una sintonia, seppure variamente modulata, sull’urgenza di un’intesa tra Abe e Obama; con la differenza che il primo non teme trabocchetti al momento della ratifica parlamentare. Ormai il premier nipponico ha infatti deciso di tagliare quel cordone ombelicale che per mezzo secolo ha legato le sorti del Partito Liberal Democratico agli umori degli ambienti rurali più conservatori. È vero che ora, per difendersi dall’accusa di tradire gli impegni presi nel 2012, in campagna elettorale, ha ottenuto che fosse diluita nel tempo la fine del protezionismo per i principali prodotti agricoli, riso in testa. Ma l’impatto psicologico delle sue scelte è enorme, e presto lo sarà anche l’impatto concreto se davvero abbandona la logica dei sussidi e aiuta solo chi accetta di produrre per l’esportazione.

Punto fermo di tutta l’impostazione di Abe è la consapevolezza che il Giappone non ce la può fare da solo ed ha bisogno della protezione americana. Questo vale dal punto di vista militare con Washington che accetta di fornire coperture nella crisi delle Senkaku, e vale per commercio e investimenti per interposto TPP. “Non possiamo lasciare che sia la Cina a dettare le regole dell’economia globale”, ha detto Obama salutando l’accordo di Atlanta e spiegando così quale sia il vero senso del TPP al di là di tutte le previsioni – fantasiose o di parte – sui benefici che esso porterà in futuro a chi ne fa parte (e perfino a chi ne è escluso). Abe ha fatto eco al presidente americano enfatizzando un aspetto dell’intesa: “Il TPP è stato creato da paesi che condividono determinati valori, in particolare la democrazia liberale, i diritti umani fondamentali, il rispetto della legge. Ora nascerà un sistema economico internazionale libero, equo e aperto, che rafforzerà il rispetto delle leggi anche in economia”.

Da un lato si attribuisce al TPP il merito di compattare, forse evidenziare, una convergenza basata su valori, quindi solo subordinatamente economica e prima di tutto politico-culturale. Dall’altro si dà piena realizzazione all’Articolo 2 del Trattato di Sicurezza USA-Giappone che richiede “la eliminazione dei conflitti nelle scelte di economia internazionale e l’incoraggiamento della cooperazione economica”. Erano parole, queste, che tra gli anni Ottanta e i primi anni Novanta, in piena guerra commerciale tra i due paesi, erano state del tutto ignorate; ora, trasformandosi – per la prima volta in modo così netto – in accordi reali, cementano l’alleanza.

Questa peraltro si colloca in un sistema di rapporti che in Asia orientale appariva ormai condannato allo schema fisso del pro o contro la Cina, ma che proprio la nascita del TPP (lobby americane ostili permettendo) potrebbe modificare. Ora alla forza di attrazione della Cina si affianca quella del TPP. E, in un contesto dove le geometrie dell’influenza si misurano assai più sulla estensione delle Free Trade Area che sulla presenza di basi militari, il concetto di “contenimento” si stempera mentre si aprono inattese porte a nuove forme di cooperazione. La Corea del Sud, che ha manifestato interesse per il TPP e che ha saputo creare un’ottima partnership commerciale con la Cina, sarebbe il ponte ideale. A breve potrebbe perfino svolgersi un vertice a tre Cina-Corea del Sud-Giappone per ridare fiato al progetto di una grande area di libero scambio che dimostrerebbe come nessuno di questi progetti sia incompatibile con gli altri. L’Australia, che pure ha raggiunto importanti accordi commerciali con la Cina, potrebbe svolgere un ruolo analogo. Né è da escludere – a Pechino si sono ben guardati dal farlo – che possano essere aperti negoziati per l’ingresso della Cina nel TPP. I momenti per impostare un nuovo approccio non mancano: a partire  dal vertice APEC, il forum di cooperazione Asia Pacifico, in programma a Manila in novembre.