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Teheran, Ankara e Washington: tra complotti e primavere

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La notizia del cosiddetto complotto iraniano – che avrebbe inteso colpire l’ambasciatore saudita negli USA, e altre rappresentanze saudite e israeliane nel mondo – ha richiamato molta attenzione internazionale. Se il piano iraniano fosse confermato, saremmo di fronte ad un significativo passaggio. Dopo oltre un decennio caratterizzato dal terrorismo islamico transnazionale di matrice qaedista, questa iniziativa segnerebbe un ritorno al cosiddetto state-sponsored terrorism, la cui stagione sembrava essersi chiusa negli anni Novanta (quando il regime di Gheddafi aveva rinunciato all’arma del terrorismo, mentre proprio in Iran erano salite al potere forze moderate e poi riformiste). Anche le modalità del fallito attentato e gli attori coinvolti, se confermati, ci riporterebbero indietro di decenni, in una realtà di collusione tra agenti di paesi islamici e criminalità organizzata (in questo caso i narcotrafficanti messicani).

Per quanto riguarda Teheran, una mossa così spregiudicata potrebbe essere rivelatrice della crescente debolezza del regime. In ambito interno, Ahmadinejad deve fronteggiare una crescente opposizione, a cui sembra essersi unita la Guida suprema Khamenei che ha ritirato il proprio sostegno al presidente. Sul piano internazionale, la realtà è quella di un Iran sempre più isolato, per il quale il terrorismo potrebbe rappresentare l’arma della disperazione, forse più a fini di coesione interna che di influenza internazionale. L’Iran appare infatti come il grande perdente nell’attuale evoluzione degli assetti mediorientali, caratterizzata dalla primavera araba e dall’emergere della Turchia come un esempio di cammino verso la democrazia e lo sviluppo per il Medio Oriente arabo.

Quello tra il modello turco e il modello iraniano è oggi – ma in realtà da quasi un decennio, dopo l’ascesa al potere di Erdogan in Turchia e di Ahmadinejad in Iran – il principale confronto in atto per l’egemonia in Medio Oriente. Due sistemi politici basati entrambi su una forte impronta valoriale islamista, ma dai caratteri quanto mai differenti. Il modello turco in politica estera, basato sulle teorie del ministro degli Esteri Davutoglu, si basa su un estremo pragmatismo, sulla ricerca di buone relazioni – in particolare economiche – con tutti i possibili partner, e sull’uso del soft power come strumento di egemonia nelle regioni circostanti. È un soft power che poggia non solo sulla credibilità politica ed economica di Ankara, ma anche su una combinazione unica: da un lato la matrice islamica del governo turco, e dall’altro una politica estera favorevole all’Occidente ma non asservita ai suoi interessi. Al contrario, il modello iraniano è una riproposizione del più classico islamismo militante, con un’estrema intransigenza a livello ideologico e un ruolo cruciale attribuito all’hard power: in particolare sotto forma di sostegno a formazioni paramilitari come Hezbollah (e, talvolta, anche a gruppi terroristici). Una strategia che si dimostra ormai logorata, ma che il regime di Teheran fatica ad abbandonare (nonostante alcune aperture in senso più pragmatico), anche a causa della retorica rivoluzionaria dell’attuale presidente.

Su questo sfondo, non appare un caso che Washington abbia scelto di divulgare, con ampia risonanza, le informazioni sul complotto di ottobre: non solo perché esse possono rappresentare un’arma in politica interna, ad elezioni sempre più vicine; ma anche perché potrebbero accentuare la situazione di isolamento in cui già l’Iran si trova nella regione mediorientale. È ormai chiaro intanto che gli USA stanno puntando con sempre più decisione sulla Turchia come attore chiave per l’auspicata democratizzazione, ma soprattutto per la stabilizzazione dell’area: ne sono una prova i frequentissimi contatti tra i vertici dei due paesi (anche all’indomani della rivelazione del presunto complotto iraniano, su cui Ankara ha manifestato dei dubbi); così come l’accordo per il dispiegamento in Turchia di uno scudo antimissile (che appare avere, in primo luogo, una funzione proprio anti-iraniana). Tra Washington, Ankara e Teheran si è quindi venuto a creare uno strano triangolo, in cui gli USA sembrano avere rinunciato, con l’amministrazione Obama, a colpire direttamente l’Iran, affidandosi invece su una strategia indiretta in cui gioca un ruolo fondamentale l’appoggio al governo turco. Una situazione in cui Erdogan sembra intenzionato a sfruttare l’appoggio americano per acquistare influenza in Medio Oriente, ma senza per questo alienarsi completamente Teheran, che rappresenta per la Turchia un importante partner commerciale e un interlocutore indispensabile su problemi condivisi come quello curdo. Non a caso, i contatti ad alto livello tra i due governi proseguono, mentre il governo di Ankara si è pronunciato negativamente su nuove sanzioni all’Iran.

Il governo Erdogan, osannato dalle masse arabe e apprezzato in Occidente, è quindi il vero vincitore, almeno per il momento, di questo confronto? Apparentemente sì, ma con alcune avvertenze. In primo luogo, riguardo al principio “zero problemi con i vicini” che è una delle massime fondamentali della politica estera di Davutoglu. Le attuali posizioni assertive assunte da Ankara sembrano infatti pregiudicare sempre più diversi rapporti bilaterali: non solo con l’Iran, con cui solo un anno fa Ankara cercava di porsi come mediatore sulla questione del nucleare; ma anche con la Siria, aspramente criticata dal governo turco per la repressione delle manifestazioni di piazza; e persino con due alleati dell’Occidente, Israele e Cipro, da cui Ankara è stata recentemente divisa dal contenzioso sui fatti della Freedom Flotilla e dalle rivendicazioni sui giacimenti sottomarini nell’Egeo. Si profila dunque il pericolo di un overstretching della politica estera turca, che potrebbe entrare in crisi a causa dell’impegno su troppi assi. Rischiano di entrare in conflitto sempre più evidente due tendenze: quella verso gli “zero problemi” e la mediazione super partes in Medio Oriente, e quella verso l’orgoglio nazionalista e l’appello populista alle masse arabe. Potrebbe quindi essere arrivato il momento delle scelte decisive per la politica estera turca.