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Spartire l’Afghanistan?

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La conferenza internazionale di Kabul si è chiusa con poche novità: il senso era di dare una mano a Karzai in vista delle elezioni parlamentari di settembre. Ma lo scenario resta duro per Obama: il presidente democratico, a pochi mesi dalla scadenza di mid-term, ha comunque di fronte a sé una seconda estate dominata dalle polemiche sui costi di una guerra ormai diventata sua e da cui tenterà di districarsi fra il 2011 (avvio del disimpegno) e il 2014 (data teorica, si è detto a Kabul, del passaggio delle responsabilità di sicurezza alle forze afgane). E intanto, dopo le polemiche connesse al caso McChrystal (la tesi dominante a Washington è che McChrystal si sia volutamente suicidato sul piano politico per evitare un sicuro fallimento militare), la sfiducia nelle possibilità di un successo americano aumenta. Si può ancora evitare la sconfitta in Afghanistan?

Gli alleati degli Stati Uniti sembrano desiderosi di sfilarsi dal gioco, come la maggioranza del pubblico americano. David Cameron, nella sua prima visita a Washington, ha cercato, in realtà, di apparire fermo al fianco di Obama; ma parlando alla BBC ha detto chiaramente che Londra prevede il ritiro, comunque vadano le cose (“Non saremo più lì nell’arco dei prossimi cinque anni”). Gli olandesi hanno previsto di ritirarsi nei prossimi mesi; i canadesi hanno annunciato che lo faranno, come i polacchi, entro il 2011.

Mentre la coalizione vacilla, perdendo dei pezzi, acquista peso – nel dibattito interno americano – l’argomento che gli Stati Uniti debbano decisamente ridurre il loro impegno: oggi, non domani. Perché, dopo nove anni di presenza militare nel paese, non è affatto scontato che soldi, sforzi e vittime ulteriori riescano a produrre risultati. Perfino voci tradizionalmente favorevoli a un “surge” in Afghanistan – come quella di Richard Haass, presidente del Council on Foreign Relations – cominciano a proporre un netto “scaling down” dell’impegno americano. Scrivendo su Newsweek la settimana scorsa, Haass ha sostenuto che l’America dovrebbe dimezzare le sue truppe, i suoi costi e quindi le sue perdite, umane e finanziarie. Perché “vincere” – ossia sconfiggere i talebani e garantire il controllo democratico del paese – è ormai un obiettivo poco credibile; mentre è possibile lasciare nel paese forze speciali e copertura aerea per aiutare polizia ed esercito locali a contenere il problema.

La convinzione di Haass, insomma, è che la guerra che l’America sta oggi combattendo in Afghanistan non sia più una guerra di necessità ma una guerra per scelta. Era necessario rispondere all’attentato dell’11 settembre, abbattendo il regime santuario di al Qaeda. Ma quella guerra di auto-difesa è ormai stata combattuta. E l’interesse attuale degli Stati Uniti non è di combattere un’altra guerra per scelta, contro l’insurrezione talebana – sulla base della strategia tentata da Petraeus; è solo quello di impedire che l’Afghanistan diventi di nuovo un santuario per attacchi terroristici agli Stati Uniti. Questo secondo obiettivo è un obiettivo tipico di contenimento, che può essere ottenuto con sforzi militari ed economici più limitati di quelli attuali.

Alle tesi di Haass si aggiungono le proposte provocatorie di Robert Blackwill, ex ambasciatore americano in India. Come Haass, anche Blackwill sostiene che l’attuale strategia militare americana è destinata a fallire: perché i talebani non si sentiranno mai sufficientemente indeboliti da essere spinti a sedersi al tavolo negoziale. La strategia di contro-insurrezione americana prevede un surge militare temporaneo e mirato come preludio a uno sforzo di riconciliazione nazionale; ma ciò che in parte ha funzionato in Iraq, non funzionerà nella realtà molto diversa dell’Afghanistan (più frammentata e al tempo stesso dominata dal contesto regionale).

Per Blackwill, Washington dovrebbe quindi modificare radicalmente il suo approccio e puntare sulla spartizione di fatto dell’Afghanistan. Ai talebani verrebbe lasciato il controllo del Sud Pashtun; mentre l’America concentrerebbe le proprie forze speciali (e il proprio appoggio a Karzai) sul Nord e la parte occidentale del paese. Questa spartizione di fatto (corrispondente alla divisione delle sfere di influenza di Pakistan e India: Balckwill non lo scrive, ma è così) limiterebbe la possibilità che al Qaeda possa colpire dall’Afghanistan. L’unico obiettivo a cui gli Stati Uniti non possono rinunciare.

Come si vede, gli approcci di Haass e di Blackwill alla fine convergono. E in realtà ripropongono una linea già esistente nell’Amministrazione Obama, ma che era stata battuta con la scorsa review sull’Afghanistan: riduzione drastica degli obiettivi da proporsi (la lotta a ciò che resta di al Qaeda), presenza limitata a forze speciali e appoggio aereo – ma sostenibile nel tempo.

Le alternative possibili tornano insomma al punto da cui si era partiti nel 2009: surge oggi e poi graduale ritiro, per il Presidente e David Petraeus; de-escalation immediata ma controllo parziale a lungo termine, per i suoi critici di scuola “realista”. È una tesi ancora di minoranza. Ma che, in assenza di risultati sul terreno, potrebbe prevalere a dicembre: quando Barack Obama condurrà una seconda review della strategia afgana.