C’è un nuovo sick man, un malato, nell’Europa del 2014. La Francia, proprio uno dei pilastri più solidi dell’Unione, potrebbe essere la causa dei maggiori scossoni nei prossimi mesi, sebbene il continente abbia arginato per quanto possibile i pericoli provenienti dalle borse, dai paesi considerati sull’orlo della bancarotta o della rivolta sociale, dalle differenze di vedute sulla gestione comune dell’economia.
La Francia vive una situazione di stallo prolungato in ambito politico, economico e sociale, e sta subendo un’ondata di rabbiosa sfiducia nell’opinione pubblica della cui ampiezza e profondità in pochi all’inizio si erano accorti. Le conseguenze di questo clima di contestazione potrebbero comportare una significativa trasformazione del panorama politico nazionale ed europeo.
Esclusa da tempo dalla fortezza dell’eurozona, ossia da quel gruppo di paesi che attorno alla Germania costituisce l’eccellenza contabile della moneta unica, dal punto di vista economico la Francia si trova ormai a metà strada tra i primi della classe e i “discoli” dell’Europa mediterranea. Negli ultimi cinque anni, la disoccupazione è cresciuta dal 7,1 al 10,5%. Nello stesso periodo, l’ammontare del debito pubblico è passato dal 68 al 93,4%. Sono cifre che a Roma, a Madrid o ad Atene desterebbero invidia; il sistema francese però ha reagito male al peggioramento dell’economia, e percepisce come pessima la condizione attuale.
Eppure, solo due anni fa François Hollande aveva dimostrato di piacere alla gente. Prima, in occasione delle primarie, l’ex burocrate di partito riusciva a presentarsi come il candidato più brillante ed estraneo alle lotte interne. E poi, da candidato, sapeva persuadere una quota sufficiente di elettori, soprattutto le fasce medie urbane spaventate dalla crisi e i giovani, della bontà della sua promessa di changement e di riforme nel senso dell’equità, della giustizia e della sobrietà.
Già allora l’opinione pubblica era attraversata da un sentimento di sfiducia generalizzata, ma ancora vaga, nei confronti della classe dirigente, senza il quale non si comprenderebbe del tutto il senso del voto. Il mandato di Nicolas Sarkozy si era infatti chiuso tra casi di corruzione, polemiche per i privilegi fiscali ai più ricchi, accuse di subalternità alla visione politico-economica di Berlino. Contemporaneamente, uno scandalo sessuale troncava la carriera di Dominique Strauss-Kahn, il personaggio che era pronto a correre alle primarie del partito socialista e che sembrava quasi predestinato a vincerle.
I bilanci erano già in via di peggioramento; tuttavia il nuovo presidente prevedeva di limitare le politiche di austerità alla prima metà del suo mandato, mentre nella seconda – che sarebbe culminata nella campagna per la rielezione nel 2017 – si sarebbe proceduto alla promessa redistribuzione. Per consolidare comunque il consenso nei primi mesi, il governo si sarebbe impegnato nelle riforme istituzionali e nell’ampliamento dei diritti civili.
La strategia di Hollande ha immediatamente vacillato. L’ampiezza della crisi ha aperto una voragine nei conti pubblici, tradizionalmente generosi in termini di protezioni sociali; il tessuto industriale ha sofferto più del previsto, soprattutto nei settori più colpiti dalla congiuntura negativa come quello automobilistico, e il conflitto sindacale ha raggiunto livelli durissimi; la piccola e media impresa ha scontato i più alti costi del lavoro e la minore capacità esportatrice rispetto a quella tedesca; il credito e il consumo si sono fermati, spingendo a tagli di spesa definiti “senza precedenti” dallo stesso governo, e agli inasprimenti fiscali connessi.
Nel frattempo, le riforme nel campo dei diritti civili hanno cozzato con proteste davvero inattese. Benché condivisa dalla maggioranza della popolazione, e inizialmente non osteggiata nemmeno dalla destra parlamentare, l’approvazione del matrimonio omosessuale ha originato un fortissimo movimento contrario, capace di riempire in diverse occasioni le strade di Parigi. L’opposizione, indebolita dopo il voto del maggio 2012, si è rivitalizzata, approfittando di un insperato canale – già ben strutturato – di contatto diretto con una parte della cittadinanza.
I socialisti non hanno saputo ritrovare l’iniziativa, inanellando una serie di autogol – come l’impegno, fallito, di arrestare l’aumento della disoccupazione entro la fine dell’anno – che hanno finito per paralizzare tutto il programma di riforme. Non solo le cifre – l’impopolarità di Hollande marca un nuovo primato a ogni rilevazione – ma anche le manifestazioni di dissenso quasi quotidiane (come i fischi in occasione delle apparizioni pubbliche) testimoniano di un distacco di grandi proporzioni tra la Francia e il suo capo di Stato.
Siamo all’inizio di un anno che sarà avaro di buone notizie per la Francia (le stime più ottimiste vedono il PIL a +0,9% e il debito sempre sopra il 3% per il 2014). L’opinione pubblica, definita da uno studio demoscopico dell’Ipsos in crise de nerfs, ha radicalizzato i propri orientamenti, e condivide l’idea di declino diffusa senza sforzo dalla narrazione politica della destra. La sfiducia tocca ora tutte le istituzioni e il concetto stesso di democrazia, e cresce in particolare nell’elettorato che aveva scelto Hollande. Soprattutto tra le fasce sociali medio-basse dilaga poi la contrarietà all’apertura delle frontiere, alla presenza degli immigrati e all’Europa nel suo complesso. Aumenta intanto la preoccupazione per le tasse, che ha sostituto quella per i servizi pubblici.
Non stupisce perciò che il Front National secondo i sondaggi sia il primo partito, seguito dall’UMP – alla guida del quale, a detta di alcuni, potrebbe addirittura tornare Nicolas Sarkozy. A due mesi dalle elezioni comunali – che interesseranno anche Parigi, a sinistra dal 2001 – e a quattro mesi dalle elezioni europee, tali dati potrebbero avere delle conseguenze clamorose.
Sul fronte europeo, una vittoria del Front National metterebbe le ali alle formazioni euroscettiche in tutto il continente, e ne rafforzerebbe in maniera decisiva il peso e la legittimità nel parlamento di Bruxelles. Inoltre, una débâcle dei socialisti francesi, specialmente se unita a un cattivo risultato dei socialdemocratici tedeschi, farebbe quasi sicuramente saltare l’accordo con i popolari che prevede la nomina di un socialista alla guida della Commissione. La sinistra europea si ritroverebbe in una posizione di forte subalternità rispetto al campo conservatore, perdendo così il suo ruolo di alternativa alle attuali politiche comunitarie – ruolo che andrebbe ad essere quasi esclusivo appannaggio delle forze più apertamente contrarie all’Unione.
Sul fronte interno, Hollande potrebbe persino decidersi a sciogliere l’Assemblea e indire elezioni legislative anticipate. Questo lo priverebbe di una maggioranza di appoggio, ma implicherebbe due vantaggi. Il primo: sarebbe un governo di destra a dover guidare un paese senza margini di crescita nel breve periodo. Il secondo: il presidente sarebbe più libero di recuperare il suo rapporto con la cittadinanza, con un discorso meno condizionato dalle promesse “di sinistra” fatte in campagna elettorale.
Non sono estranee a questo orientamento le recenti aperture di Hollande sulla diminuzione dei contributi pagati dalle imprese ai lavoratori, condite da toni piuttosto nazionalisti, e accompagnate da promesse di sostanziose riduzioni ulteriori della spesa pubblica. Attraverso un “patto di responsabilità”, il presidente conta di spingere il centro e la destra moderata a convergere sulle sue nuove proposte, spezzando il clima di stato d’assedio intorno alla sua persona e ponendosi come garante di accordi condivisi da parti significative della politica e della società.
Addomesticando l’irritazione dell’opinione pubblica per mezzo delle classiche “larghe intese”, Hollande ritiene di conservare qualche chance di rielezione in vista del voto del 2017. Prima però, dovrà sopravvivere a un terribile 2014.