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Scelte energetiche e riflessi di politica estera: il bilancio positivo di Obama

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Già quattro anni fa, nella sua prima campagna presidenziale, Barack Obama parlò dell’energia come di uno dei settori strategici per il futuro degli Stati Uniti. Ora è tornato a battere su questo tasto, anche se per motivi parzialmente diversi dal passato. È proprio nel campo energetico, infatti, che il presidente ha impresso una vera e propria inversione di rotta e ha realizzato quel “cambiamento” promesso agli elettori. Oggi si tratta di raccoglierne i frutti – e rimotivare quella parte dell’elettorato liberal che teme l’impatto ambientale della ricerca di fonti energetiche offshore.

Ogni presidente americano cerca di lasciare la propria impronta durante gli anni del suo mandato e con questa nuova politica energetica (unita alla riforma di Wall Street, che riguarda anche le grandi multinazionali dell’energia) Obama sta tentando di riaffermare la supremazia dello stato regolatore, con importanti riflessi anche in politica estera. Dal punto di vista della sicurezza energetica, infatti, le politiche messe in atto dall’amministrazione negli ultimi quattro anni hanno notevolmente ridotto la dipendenza verso l’estero – e verso il Medio Oriente in particolare – liberando così risorse economiche in nuovi settori produttivi, e di riflesso hanno consentito una  maggiore libertà d’azione alla politica estera del paese. Oggi, grazie a queste riforme, gli Stati Uniti possono permettersi (non solo politicamente ma anche economicamente) l’embargo contro l’Iran, come anche di e concentrarsi sul Pacifico, in una misura che non sarebbe stata possibile durante l’era di Bush.

“Non possiamo avere una strategia energetica, come quella attuata nel secolo scorso, che ci costringa nel passato –  ha dichiarato il presidente la scorsa primavera – abbiamo bisogno di una strategia complessiva per il futuro, che sviluppi ogni risorsa energetica disponibile in America”.

Il primo impegno dell’amministrazione è stato quello di portare la produzione più vicino a casa e il più possibile lontano dall’instabilità mediorientale. Un tempo questo processo sarebbe risultato molto costoso. Il vantaggio economico che gli Stati Uniti (e non solo loro) ricavavano dalla produzione di petrolio nella regione si basava, in primo luogo, su considerazioni geologiche e logistiche: il petrolio mediorientale, e quello del Nord-Africa, si trova sotto vaste distese di sabbia ed è quindi relativamente facile da raggiungere. Nel 2008 ad esempio, produrre un barile qui costava dai 6 ai 28 dollari, rispetto ai 39 necessari per la produzione di greggio in un qualsiasi altro angolo del mondo. Altre considerazioni, come la facilità di raffinazione e la capacità di generare economie di scala grazie all’alta concentrazione di attività estrattive e produttive in loco, hanno concorso a formare il vantaggio competitivo anche in sede Opec. Grazie agli sviluppi tecnologici, questi fattori stanno oggi perdendo importanza, modificando anche le scelte politiche che li avevano fin qui sostenuti.

L’amministrazione ha quindi puntato con successo alla sostituzione delle importazioni con la produzione interna. Nel 2011, la produzione americana di petrolio e di gas naturale ha raggiunto il picco più elevato degli ultimi otto anni. Contemporaneamente, c’è stato un calo delle quota di importazioni di petrolio sul totale dei consumi dal 57% del 2008 al 45% del 2011. Tutto ciò è avvenuto anche grazie alla ricerca di fonti prima inaccessibili, come i giacimenti di petrolio e gas naturale in mare aperto. Mentre ulteriori passi in avanti sono stati fatti nel campo delle energie pulite e puntando sul risparmio energetico da parte delle famiglie e delle aziende.

Questi successi hanno poi permesso, sul piano politico, l’approvazione di regolamentazioni più stringenti nel settore energetico. Basta citare due casi.

Il primo riguarda da vicino l’aumento della produzione interna. Parallelamente al crescente sfruttamento di giacimenti offshore nel Golfo del Messico e lungo le coste dell’Alaska (il “Clean Energy Push” voluto dal presidente), sono state introdotte una serie di norme e vincoli per le trivellazioni in mare aperto. L’approvazione del National Environmental Policy Act ha avuto effetti complessivamente positive, sebbene alcuni analisti abbiano criticato il maggiore peso burocratico per ottenere le concessioni e i prezzi più elevati, che insieme alle nuove norme di trasparenza e le dotazioni di sicurezza richieste per prevenire incidenti potrebbero ridurre la produttività del settore. Del resto, l’urgenza di un intervento legislativo si è resa necessario anche per ragioni di sicurezza ambientale: produrre vicino a casa ma produrre in maniera sicura. Grande è stato l’impatto sull’opinione pubblica, infatti, dell’incidente occorso alla piattaforma petrolifera Deep Blue Horizon della Bp, che nel 2010 riversò in mare enormi quantità di greggio e che aveva messo sotto accusa il piano di attività estrattive inaugurato dal presidente. A un anno dall’incidente, la commissione della Casa Bianca incaricata di svolgere indagini sull’accaduto ha concluso che l’incidente alla piattaforma petrolifera della Bp è stato causato da una serie di errori prevedibili. Ne è seguita  una campagna di pressione sui membri del Congresso per aumentare le risorse destinate al controllo delle trivellazioni offshore e per imporre una regolamentazione più severa in tema di sicurezza e impatto ambientale.

Il secondo caso significativo di nuove regolamentazioni riguarda il campo finanziario e la stretta correlazione tra scelte di politica interna e scelte di politica estera. La legge di riforma di Wall Street conosciuta come legge Dodd-Frank, approvata a luglio 2010, ha iniziato a produrre i suoi primi effetti anche nel settore energetico. I regolamenti attuativi della norma prevedono una maggiore trasparenza per le compagnie che lavorano in questo ambito. Una trasparenza richiesta soprattutto nella gestione delle loro risorse e delle concessioni: dove e come operano, e sulla base di quali accordi commerciali con paesi terzi (per svelare, ad esempio, la presenza di eventuali finanziamenti occulti a governi che non rispettano i diritti umani e foraggiano il terrorismo); ma anche nella loro gestione finanziaria. Le  multinazionali dell’energia, infatti, dovranno dichiarare la loro esposizione sui mercati finanziari considerati a rischio come quello dei derivati e degli “swap”, per scongiurare un potenziale effetto domino sull’economia nazionale e per prevenire rischi sistemici.

È facile comprendere le resistenze della lobby energetica rispetto a queste novità legislative. Ed è tuttora in corso un acceso braccio di ferro per rallentare o bloccare le regole introdotte dalla Dodd-Frank (definito dagli avversari come un vero e proprio monstre burocratico). Tra le prime critiche mosse alla riforma finanziaria ci sarebbe quella di creare un gap competitivo per le imprese americane rispetto a quelle asiatiche (soprattutto cinesi) che possono, invece, muoversi liberamente, perché prive di tutti questi oneri e limitazioni.

Va detto però che queste scelte in campo energetico hanno creato nuovi margini di manovra per la politica estera americana. Lo sviluppo delle attività estrattive di risorse non convenzionali sta infatti portando a un avvicinamento geografico tra il luogo della produzione e quello della domanda, rendendo sempre meno necessario il trasporto di gas e petrolio su lunghe distanze, con evidenti vantaggi nel campo della sicurezza energetica. La prima conseguenza è stata una distanza economica e politica tra gli Stati Uniti e il Medio Oriente prima impensabile, anche per le vecchie logiche della guerra fredda e per l’investimento politico ed emotivo della guerra al terrorismo degli anni del presidente Bush. Inoltre in una fase di grave crisi economica internazionale, la nuova politica energetica degli Stati Uniti ha ponendo le basi concrete per aumentare la competitività americana nei confronti delle economie emergenti come Cina e India, vero focus dell’amministrazione fin dall’inizio del proprio mandato. In sostanza, la politica energetica e le riforme nel campo economico/finanziario volute da Obama sono direttamente collegate alla sicurezza nazionale e alle scelte strategiche del paese per il futuro. Si tratta di un bilancio decisamente positivo.