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Salvare la Grecia per curare l’Europa

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L’area euro ha appena compiuto dieci anni ma sembra già un adolescente: è ancora in cerca della propria identità,  soffre di scompensi di crescita e improvvisi cambiamenti d’umore, si sente spesso incompresa e sottostimata.  Come con un adolescente, speriamo che tutto si risolva per il meglio. Ma sta diventando sempre più evidente che i rischi ci sono.

La crisi finanziaria ha già imposto una buona dose di umiltà. Nelle fasi iniziali della crisi, molti policymaker europei sembravano convinti che i problemi sarebbero rimasti confinati – del tutto o quasi – agli Stati Uniti, dove era scoppiata la famosa bolla del settore immobiliare cosiddetto “subprime”. Inoltre – questo il ragionamento tipico degli europei – gli Stati Uniti erano stati resi vulnerabili da un enorme disavanzo nei conti con l’estero. L’Europa, al contrario, sarebbe stata protetta dalla maggiore prudenza del suo settore finanziario, da una crescita economica solida e ben bilanciata, e da conti con l’estero pressoché in pareggio. Sa la tesi era questa, la preoccupazione prevalente diventava quella di assicurarsi che gli aumenti continui del prezzo del petrolio non causassero un aumento dell’inflazione più generalizzato.
 
Oggi, a due anni di distanza, quel senso di sicurezza iniziale degli europei è svanito, spazzato via dalla crudezza dei dati economici: nel 2009, l’area dell’euro ha sofferto una recessione più profonda degli Stati Uniti. Per il 2010, si profila una ripresa economica più debole di quella che vedremo sull’altra sponda dell’Atlantico. Ma quel che è peggio, e quasi causa di imbarazzo, è il fatto che il rischio di una crisi del debito in uno o più paesi Europei (Grecia, Spagna, Portogallo) sia diventata di colpo la preoccupazione dominante nei mercati finanziari.

Alla ricerca di scuse
Mentre cercano di trovare una soluzione che possa stabilizzare i mercati (attraverso una sorta di joint-venture con il Fondo Monetario Internazionale), i policymaker europei tendono ancora a cercare giustificazioni esterne: la reazione dei mercati – questa la tesi – sarebbe guidata da una mancanza di comprensione della realtà europea. In altre parole, i mercati starebbero commettendo l’errore di focalizzarsi eccessivamente sui singoli paesi, invece di guardare all’Eurozona nel suo complesso.

La Banca Centrale Europea, ad esempio, ha sottolineato il fatto che i conti pubblici dell’Eurozona sono più solidi di quelli degli altri principali paesi industrializzati. Il Fondo Monetario Internazionale prevede per il 2010 un deficit pubblico di circa il 6,5% del PIL per l’eurozona, a fronte di un deficit superiore al 10% per gli Stati Uniti e il Giappone, e superiore al 13% per il Regno Unito.

La BCE afferma altresì che porre l’attenzione su un singolo paese membro dell’area euro ha tanto poco senso quanto ne avrebbe focalizzarsi su un singolo stato degli Stati Uniti. In particolare, la BCE ha sottolinea che la preoccupazione per la Grecia è eccessiva, visto che l’economia greca rappresenta appena il 2% del PIL di Eurozona – mentre negli Stati Uniti la California, che è anch’essa in difficoltà finanziarie, rappresenta ben il 13% del PIL americano.

Grecia e California
In maniera forse paradossale, è esattamente un paragone tra Grecia e California che può aiutare a far luce sulla natura e l’entità dei problemi europei: ma non nella direzione che la BCE sembra indicare.  Anzitutto, i conti pubblici della California sono molto più sani di quelli della Grecia. Nel 2008 (anno dei dati ufficiali più recenti del Census Bureau) la California ha registrato un deficit pubblico di 46 miliardi di dollari, equivalenti al 2,5% del PIL californiano. Lo stesso anno, la Grecia ha registrato un deficit pubblico del 7,7% del PIL, poi salito al 12,7% nel 2009. Inoltre, alla fine del 2008 lo stock di debito pubblico della California ammontava ad appena il 7% del PIL dello Stato, mentre il debito pubblico greco ammontava al 100%, per crescere a circa il 110% già alla fine del 2009. La traiettoria rimane ascendente.

Con un rapporto debito/PIL del 7% (California), è difficile che si presenti un problema di sostenibilità del debito pubblico; ma con una rapporto debito/PIL di oltre il 100% (Grecia), i rischi aumentano.

C’è un secondo fattore da considerare, forse ancora più importante; negli Stati Uniti esiste il governo federale. E il governo federale, come noto, ha prerogative primarie per quanto riguarda la tassazione e la fornitura di servizi pubblici. Ciò significa che un eventuale, ipotetico fallimento del governo della California avrebbe un impatto più limitato del fallimento del governo di uno Stato sovrano europeo. Se la California dovesse trovarsi nella condizione di non potere onorare il proprio debito, il governo federale potrebbe aiutarla o potrebbe altrettanto facilmente rifiutarsi di intervenire, sapendo che il rischio di contagio sarebbe in ogni caso limitato: cosa che, naturalmente, riduce i rischi di moral hazard. Poiché negli Stati Uniti esiste una chiara distinzione e separazione tra debito federale e debito locale, l’eventuale default da parte di uno stato americano non avrebbe un impatto significativo sul mercato dei Treasuries: non si rivelerebbe sistemico.

Il caso della Grecia è molto diverso; chi ha le risorse sufficienti ed il potere necessario per assicurare un supporto finanziario al governo di Atene e al tempo stesso per imporre una maggiore disciplina? L’Unione Europea naturalmente dispone di sufficienti risorse finanziarie: l’intero stock di debito pubblico greco ammonta a solo il 2% del PIL dell’ Eurozona. Ma non esistono meccanismi prestabiliti di intervento e soprattutto non esiste un potere di condizionamento.

Il problema principale, insomma, non è la capacità in quanto tale dell’UE di mobilitare un soccorso finanziario; il problema è che tale aiuto dovrebbe essere accompagnato da forti e credibili condizioni relative alla politica economica. Questo sia per assicurarsi che il paese possa ristabilire le condizioni necessarie alla sostenibilità del debito, sia per evitare di accentuare i rischi di moral hazard: altri paesi in difficoltà potrebbero infatti sentirsi meno motivati ad adottare le necessarie misure dei conti pubblici se esistesse la prospettiva di un salvataggio esterno incondizionato.

Il Fondo Monetario Internazionale ha una lunga esperienza in questo campo, avendo negoziato e seguito programmi di aggiustamento in moltissimi paesi – e per decenni. L’UE, al contrario, non ha nessuna esperienza in materia. E quel che è peggio, l’UE non sarebbe in grado di imporre condizioni credibili. Dal momento che nell’Eurozona non esiste né un governo federale né un debito federale, un eventuale default da parte di un paese membro scatenerebbe istantaneamente un fenomeno di contagio, colpendo rapidamente il debito di altri paesi membri.  E’ per questo che l’UE deve affrontare il problema; ma è sempre per questa stessa ragione che l’UE in quanto tale non può credibilmente ottenere un certo numero di condizioni dalla Grecia.

La BCE – si ricordava – sostiene che i mercati devono guardare all’area euro nel suo complesso, non ai singoli paesi. Ma il lato paradossale della questione è che il problema attuale è nato esattamente dal fatto che troppo a lungo gli investitori hanno guardato all’eurozona nel suo complesso, invece di concentrarsi sui fondamentali dei singoli paesi.

Dopo il varo della moneta unica, gli spread sui titoli governativi all’interno dell’area euro si sono istantaneamente ridotti all’osso, cessando di rispecchiare i diversi fondamentali macroeconomici e di finanza pubblica. Gli investitori si erano convinti, evidentemente, che esistessero solo due possibilità: o tutti i paesi membri avrebbero finito col convergere sulla retta via indicata dal Patto di Stabilità e Crescita, o si sarebbero aiutati a vicenda in caso di necessità.  La conseguenza è stata che i singoli paesi non hanno più dovuto sostenere il pieno costo di politiche di finanza pubblica dissennate.

Protetti dallo scudo dell’unione monetaria, paesi come Grecia, Portogallo, Spagna e Irlanda hanno quindi proceduto ad accumulare livelli eccessivi di debito sia pubblico che privato, che sono riusciti a finanziare con fondi esteri disponibili a costi irragionevolmente bassi. Questa dinamica si è nel tempo riflessa nell’accumulazione di ingenti disavanzi con l’estero: nel 2008 la Grecia aveva un deficit di partite correnti del 14% del PIL, il Portogallo del 12%, la Spagna di quasi il 10% e l’Irlanda di più del 5%. La BCE ha affermato più volte che i disavanzi di partite correnti a livello di un singolo paese membro dell’area euro sono irrilevanti. Non è cosi. Nel momento in cui la fiducia dei mercati viene meno, i flussi di finanziamento mano a mano scompaiono, e la pressione che normalmente si scaricherebbe sul tasso di cambio, portando ad un deprezzamento, determina invece un crescente costo di rifinanziamento e quindi di servizio del debito, che a sua volta può eventualmente suscitare dubbi sulla sostenibilità del debito stesso.

La Germania come la Cina
Questi squilibri nei conti esterni non sono solo il risultato di un eccessivo livello di consumi pubblici e privati nei paesi in disavanzo. Sono anche il risultato di un fondamentale squilibrio nella crescita della zona Euro. Negli ultimi anni, la Germania ha perseguito una strategia di crescita guidata dalle esportazioni. La dinamica salariale è stata estremamente contenuta, in parte a causa della minaccia implicita di delocalizzazione di impianti in paesi a più basso costo del lavoro. Al tempo stesso, la produttività del lavoro è aumentata a ritmo sostenuto, mentre l’industria si è andata specializzando in prodotti a più alto valore aggiunto quali beni di investimento. Di conseguenza, la Germania ha guadagnato un margine di competitività crescente nei confronti dei partners europei, margine che si è solo in parte ridotto a causa della crisi. Lo dimostrano i dati relativi agli avanzi tedeschi nei conti con l’estero, con un attivo di partite correnti che ha raggiunto nel 2008 il 6,5% del PIL.

Dato che due terzi delle esportazioni tedesche sono dirette al resto dell’UE, non deve stupire che altri paesi abbiamo finito con l’accumulare ingenti deficit di partite correnti. E visto che la ripresa dell’economia globale è trainata proprio dal commercio estero, è difficile immaginare che la Germania sia disposta a cambiare strategia. Ma l’Europa (come d’altronde gli Stati Uniti) è un’area economica relativamente chiusa: questo significa che il grosso della crescita deve per forza fare leva su consumi ed investimenti interni. Se la Germania continuerà a mantenere una bassa dinamica salariale e quindi dei consumi deboli, le alternative possibili sono due soltanto: o gli altri paesi membri dell’eurozona faranno lo stesso – e in questo caso il vecchio continente verrà condannato alla stagnazione economica; oppure perderanno competitività relativa, il che produrrebbe un aumento ulteriore degli squilibri macroeconomici interni all’Europa.

Può sembrare assurdo suggerire che la Germania debba in qualche modo stimolare una più generosa dinamica dei salari, con una conseguente perdita di competitività. Ma se questo non avverrà, resterà solo la scomoda scelta tra una stagnazione economica sostenibile ed una crescita sbilanciata e destabilizzante. Il rischio più immediato è che la ripresa economica europea possa spegnersi rapidamente, se i mercati imporranno un drastico aggiustamento fiscale a paesi che hanno perso competitività e non possono recuperarla tramite una svalutazione del cambio.

La via di uscita di un’Europa adulta
C’e’ però, almeno in teoria, una via d’uscita: consisterebbe nel fare in modo che i singoli paesi membri dell’area Euro diventino davvero irrilevanti. Trasformiamo sul serio la Grecia nell’equivalente della California. Ciò richiederebbe la creazione di un vero e proprio governo federale europeo, con grande potere di tassazione e di spesa, con la capacità di ridistribuire risorse da paese a paese e di imporre una disciplina fiscale a tutti i paesi membri. In breve, richiederebbe un livello di integrazione politica ben superiore a quello che i governi dei paesi membri sembrano al momento disposti ad accettare. Ma non esiste altra scelta.

L’assetto istituzionale attuale si è dimostrato inadeguato: né il Patto di Stabilità, né la “peer pressure” sono in grado di assicurare una prudente gestione dei conti pubblici. L’attuale struttura di incentivi crea un forte problema di “moral hazard”: il risultato è una combinazione di bassa crescita e di instabilità finanziaria.

L’Eurozona dovrà finalmente diventare adulta, ristrutturando il proprio assetto istituzionale per reggere all’interno e per tenere il passo con una competizione internazionale sempre più forte. Altrimenti, tra altri dieci anni l’Eurozona potrebbe ritrovarsi precocemente invecchiata. E rimpiangerà i traguardi che avrebbe potuto raggiungere se solo ci avesse provato.