Più riforme e liberalizzazioni in campo economico, più controllo per generiche ragioni di “sicurezza”, e in effetti maggiore accentramento di poteri nelle mani di pochi in campo politico. È questo il risultato del cosiddetto Terzo plenum, cioè la terza sessione plenaria del Comitato centrale del 18mo Congresso del Partito comunista cinese che si è tenuta alla periferia di Pechino tra il 9 e il 12 dicembre. Al termine dei lavori, che si sono svolti come sempre a porte chiuse, il partito ha diramato un primo fumoso comunicato, poi integrato da un secondo documento più corposo che ha delineato meglio quali siano le “riforme senza precedenti” annunciate già prima che i politici si riunissero.
C’è un motivo se il Terzo plenum era atteso con ansia da tutti gli osservatori, soprattutto occidentali. Ogni Congresso di partito dura cinque anni e si riunisce circa una volta all’anno. Se la prima sessione plenaria introduce la nuova leadership e la seconda serve a consolidare i rapporti di forza all’interno del partito, la terza di solito viene usata per delineare le riforme che si intendono attuare. Da un Terzo plenum, dunque, si può capire la natura e gli obiettivi di un governo; memorabile quello dell’11esimo Congresso del dicembre 1978, due anni dopo la morte di Mao Zedong, la fine della Rivoluzione Culturale, quando Deng Xiaoping lanciò l’era dell’apertura della Cina. Fondamentale anche il Terzo plenum del 14esimo Congresso, tenutosi nel novembre del 1993, quando fu coniato il concetto di “Economia socialista di mercato”.
Il Terzo plenum dell’era Xi Jinping ha sicuramente deluso chi si aspettava riforme immediate e radicali del sistema economico e politico, ma proprio le sue contraddizioni e sfumature permettono di capire la direzione che la Cina sta prendendo. Se da una parte nel comunicato finale il partito ha attribuito un ruolo importante, anzi “decisivo”, al mercato e all’impresa privata, dall’altra si è smorzato il valore dell’affermazione sottolineando che “le imprese pubbliche costituiscono un elemento fondamentale del nostro sistema [economico]”. Se dunque il Partito comunista ha dimostrato di essere consapevole che per continuare a crescere serve più libero mercato e meno controllo da parte delle autorità, dall’altra adotta un atteggiamento prudente perché non vengano intaccati troppo gli interessi dei funzionari comunisti nelle grandi aziende partecipate dallo Stato e nei governi locali.
Non è un caso se l’anno fissato per implementare le riforme annunciate è il 2020 e non il 2015: molte resistenze si avranno sicuramente dagli enti locali e ci vuole tempo per vincerle. Pechino ha però dimostrato di aver capito che se vuole stabilizzare la crescita economica intorno a un comunque impressionante 7%, dopo anni passati in doppia cifra, ha bisogno di un nuovo modello di crescita, di un’economia più bilanciata e un mercato interno più forte. L’annuncio di una riforma non dà mai la certezza della sua implementazione, ma se i tanti cambiamenti sbandierati verranno realizzati le cose dovrebbero cambiare così: le aziende private, sia straniere che domestiche, saranno libere di competere con le imprese statali; i tassi di interesse saranno quasi interamente liberalizzati e determinati dal mercato, e non come oggi da scelte politiche; la terra, che attualmente è di proprietà collettiva con i singoli che possono usufruirne ma non venderla o affittarla, potrà essere ceduta o affittata dagli usufruttari solo se non coltivabile (e in tal modo, dovrebbe anche subire un freno il fenomeno dell’esproprio di terre da parte dei governi locali). Proprio i governi locali saranno valutati, e i funzionari promossi nel partito di conseguenza, non solo per i tassi di crescita che riescono a ottenere (spesso con infrastrutture faraoniche ma inutili) ma in base al livello di debito accumulato: i sistemi virtuosi saranno quindi premiati.
Il sistema di residenza conosciuto come hukou, che tanto mette in difficoltà i lavoratori migranti che dalle campagne si spostano nelle città, dovrebbe essere gradualmente abolito per favorire l’afflusso di nuova forza lavoro nelle grandi città. Inoltre, la legge sul figlio unico sarà ammorbidita: le coppie dove almeno uno dei componenti è figlio unico potranno avere due figli, mentre fino ad oggi per avere questa possibilità entrambi i componenti della coppia dovevano essere figli unici. È stata annunciata infine anche l’abolizione del sistema dei campi di rieducazione attraverso il lavoro (laojiao), che dovrebbero chiudere in tutto il paese.
A smorzare l’entusiasmo per alcuni di questi annunci ci hanno pensato però le dichiarazioni di importanti funzionari dello Stato, che hanno definito la riforma della legge sul figlio unico “niente di che”, la riforma della terra come “un esperimento”; lo stesso è stato dichiarato per “l’attenzione al debito nei confronti dei governi locali”, mentre diverse testimonianze di attivisti confermano che i laojiao stanno cambiando nome (“centri di disintossicazione per tossicodipendenti” e “centri di custodia ed educazione per prostitute”) ma gli abusi e i turni di lavoro massacranti restano gli stessi.
Il pacchetto di riforme economiche potrebbe risultare decisivo, se correttamente implementato, ma secondo molti osservatori il nodo cruciale e irrisolto rimane quello del ruolo del partito: si continuerà a seguire la via del “socialismo con caratteristiche cinesi” caratterizzata dalla guida del partito unico. Inoltre, l’ossessione di Pechino per la sicurezza e la stabilità è confermata dalla nomina di due nuove super commissioni che centralizzano al massimo i poteri al vertice dell’apparato Stato-partito: il plenum ha infatti creato una Commissione per la sicurezza nazionale (CNS) per coordinare meglio il lavoro dei dipartimenti che gestiscono compiti che vanno dal lavoro di polizia e controspionaggio fino ai media e agli affari esteri e la commissione per “l’approfondimento complessivo delle riforme”. La prima, secondo Xia Yeliang, ex professore all’università di Pechino e famoso intellettuale, “assomiglia al KGB di epoca sovietica”.
Entrambe le commissioni con ogni probabilità saranno guidate dallo stesso Xi Jinping, che concentrerà nelle proprie mani un insieme di poteri inedito almeno dall’era di Mao, essendo già presidente della Repubblica Popolare, segretario generale del Partito comunista e comandante in capo delle forze armate. L’analogia più corretta per Xi sembra quella con la figura di Deng Xiaoping: un leader, cioè, pragmatico che sa quando rispolverare usanze maoiste, come le sessioni di critica e autocritica nuovamente imposte ai funzionari di partito, e quando parlare di un nuovo “sogno cinese”. Il paragone con Deng calza anche perché questi non è stato solo il leader della grande apertura della Cina ma anche quello della sanguinosa repressione di Piazza Tienanmen. Così Xi cerca di dare al mercato un ruolo maggiore, e “decisivo”, ma allo stesso tempo rende ancora più efficiente l’apparato di controllo nei confronti della popolazione. In apparenza, la direzione di marcia sul piano economico, dunque, è opposta rispetto a quella sul piano politico. Bisogna vedere se si riuscirà a conciliare centralismo in politica e (relativo) liberalismo in economia: questi due obiettivi del Terzo plenum sono chiari, ma resta da capire se nella pratica il secondo è perseguibile fino in fondo senza abbandonare il primo.