international analysis and commentary

Riduzione del debito e nation building: lezioni della storia per l’Europa

287

I conti di alcuni Stati dell’Unione erano stati ripianati, ma altri Stati restavano schiacciati dal peso del debito. E così cominciò a circolare l’idea di un intervento dall’alto, che consentisse di trasferire parte degli oneri a livello federale. Il ministro delle Finanze aveva avanzato una serie di proposte. Ma doveva fare i conti con le resistenze dello Stato più grande, ricco e virtuoso dell’Unione.

Cronache della crisi finanziaria europea nell’anno di grazia 2011? No: storia degli Stati Uniti a pochi anni dall’indipendenza.

L’allora “ministro” è il primo segretario del Tesoro di Washington, Alexander Hamilton, e lo Stato più grande, ricco e virtuoso era, a quei tempi, la Virginia.

Uno dei problemi più seri della neonata repubblica era il debito accumulato dalle 13 colonie durante la guerra di indipendenza. Per superarlo, il segretario del Tesoro aveva proposto un piano in due fasi. La prima prevedeva che il governo federale si accollasse il debito contratto dagli Stati. La seconda tappa contemplava la creazione di una Bank of America – un embrione di Banca Centrale – che avrebbe gestito il debito e provveduto a finanziare, all’occorrenza, le attività dell’amministrazione.

Le proposte hamiltoniane si scontrarono con un’opposizione feroce. Contro di esse si mosse in primo luogo l’allora segretario di Stato Thomas Jefferson, uno dei padri della Dichiarazione di indipendenza. Le sue obiezioni erano di carattere costituzionale. A suo avviso, il piano del segretario del Tesoro costituiva un’aperta violazione dei diritti degli Stati, a tutto vantaggio del governo federale. E soprattutto, rappresentava un pericoloso precedente. Non vi era nulla, infatti, nella Costituzione, che autorizzasse la creazione di una “Banca degli Stati Uniti”. Costituirla extra legem avrebbe minato alla base il principio degli enumerated power, secondo cui il congresso può legiferare solo ed esclusivamente nelle materie previste dalla Costituzione.  

Più che le obiezioni di carattere costituzionale, era però l’opposizione di alcuni Stati ad ostacolare il piano di Hamilton. Il più risoluto di tutti era la Virginia, che all’epoca includeva anche gli attuali West Virginia e Kentucky. Le sue finanze erano relativamente sane, e i suoi abitanti non avevano nessuna intenzione di pagare di tasca propria per le “scelleratezze” finanziarie dei puritani del nord.

Richmond, alla fine, dette il proprio assenso al piano di risanamento. In cambio, però, ottenne da Hamilton la promessa che la capitale federale sarebbe stata spostata a sud, in un territorio ritagliato fra la stessa Virginia ed il Maryland, sui terreni paludosi lambiti dal Potomac. Lì sorse la città di Washington.

La collocazione del Campidoglio a poche ore di distanza dalle tenute patrizie della Virginia avrebbe simboleggiato, nei decenni successivi, il predominio politico dell’Old Dominion all’interno dell’Unione. E non è un caso che esso abbia dato i natali a quattro dei primi cinque presidenti degli Stati Uniti.

Sorpresi delle analogie con gli eventi di casa nostra? Non sono accidentali. Le difficoltà dei neonati Stati Uniti, così come quelle dell’Unione Europea, confermano una verità molto semplice: in una federazione ancora poco strutturata – come erano allora gli Stati Uniti e come è oggi l’UE – si possono creare tensioni distributive. E queste tensioni possono essere superate soltanto se gli Stati più forti e competitivi si assumono responsabilità commisurate al loro “status”, accettando di contribuire più degli altri al funzionamento dell’Unione. È quello che aveva fatto, all’epoca, la Virginia, in cambio del riconoscimento implicito della sua posizione di “leadership”.

Nel caso dell’Unione Europea, questo ruolo di “paymaster” e leader implicito (o potenziale) è stato svolto, storicamente, dalla Germania. Ma Berlino è sempre più restia ad assumerlo. Negli anni Novanta aveva cominciato a recriminare sui “saldi netti” al bilancio comunitario. Adesso, stigmatizza il rischio che l’UE si trasformi in una “Transfer-Union” ostracizzando proposte, come gli eurobonds, che potrebbero alleviare le pressioni sull’euro.

Qualcuno dirà: perché meravigliarsi se i tedeschi si rifiutano di pagare pedaggio per rimediare ai problemi altrui? È un’osservazione corretta in un’ottica meramente contabile, ma politicamente miope. Come l’Unione delle tredici colonie originarie, anche l’Unione Europea ha prodotto, in questi anni, una serie di benefici materiali e immateriali: ha facilitato la ricostruzione postbellica (ed il reinserimento delle potenze dell’Asse nella comunità internazionale); ha posto le condizioni per uno straordinario boom economico mettendo a disposizioni degli Stati membri un mercato di proporzioni continentali; ha prodotto una serie di beni immateriali, a partire dalla stabilità politica e dalla pace, e ha cominciato a produrre dei fondamentali “common goods” come la tutela degli interessi europei nel mondo.

Questi benefici non sono contabilizzati nelle bilance dei pagamenti e non sono oggetto di valutazione da parte delle agenzie di rating ma costituiscono una formidabile ricchezza per tutti gli Stati membri, compresa la Germania. E questo anche facendo astrazione dei vantaggi concreti che la posizione di “paymaster” ha sempre assicurato a Berlino. Basti pensare alle politiche regolatorie e alla fissazione di standards, che in cinquant’anni di integrazione hanno quasi sempre finito col mutuare i modelli tedeschi, e basti citare il caso della politica monetaria della BCE, che di fatto segue le orme della Bundesbank.

Insomma, la leadership ha dei costi, ma anche dei vantaggi, materiali e immateriali. Le classi dirigenti della Virginia se ne resero conto e decisero di barattare qualche “BOT” dell’epoca con una posizione di guida all’interno di un’Unione più forte. Resta da vedere se le classi dirigenti tedesche avranno il coraggio e la voglia di fare altrettanto. Così come resta da vedere se gli altri Stati membri saranno disposti ad accettare le implicazioni di una “europeizzazione” del debito, a cominciare dalla esigenza, reclamata da Berlino, di controlli più stringenti sulla condotta delle politiche economiche nazionali.

I segnali, per il momento, non sembrano incoraggianti. Ma possiamo consolarci con i precedenti storici. Nel caso statunitense, la crisi del debito ebbe un epilogo imprevisto. L’accordo fra Hamilton e la Virginia non si limitò a favorire il risanamento ma condizionò in maniera duratura l’insieme degli equilibri costituzionali statunitensi. Non a caso, gli argomenti a favore della Costituzione di una “Bank of America” (con il connesso trasferimento a livello federale di parte del debito degli Stati) vennero ripresi dal Chief Justice Marshall nel celebre caso McCulloch v. Maryland: uno dei pilastri di quella giurisprudenza evolutiva che avrebbe consentito, nei primi decenni della repubblica, di consolidare l’esperimento federale statunitense e di rafforzare il ruolo del governo centrale nei confronti degli Stati. Il condizionale è d’obbligo, ma se l’Europa dovesse riuscire a superare indenne questi momenti di crisi, se trovasse la forza per imboccare la strada maestra della creazione di un autentico governo dell’economia, il problema del debito potrebbe persino rivelarsi un’occasione.  

 

Una rielaborazione di questo articolo uscirà su La Stampa a firma di Marta Dassù.