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Un altro secolo breve?

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Lo storico inglese Eric Hobsbawm ha definito il XX secolo come “secolo breve”. Ne ha individuato l’inizio non nell’anno 1900, ma nel 1914 (inizio della prima guerra mondiale), e la fine non nell’anno 2000, bensì nel 1989, con il crollo del Muro di Berlino – data, questa, che forse potrebbe essere sostituita con il 1991, fine dell’Unione Sovietica. La tesi è più che convincente, ma non ci sembra che ci possa aiutare a risolvere un’altra questione, quella dell’inizio del XXI secolo.

Non si può dire, infatti, che fine del XX e inizio del XXI secolo siano coincise. Anzi, l’ultimo decennio del ‘900 ci appare come un agitato, confuso e disorientato interregno. Venuto meno il paradigma centrato sulla contesa Est/Ovest e su comunismo/anticomunismo, invece dei dividendi della fine della guerra fredda – in termini di pace e sviluppo economico – il mondo ha registrato atroci conflitti come il genocidio in Ruanda e la sanguinosa disgregazione della Jugoslavia.

Come qualcuno scrisse in quegli anni, l’URSS aveva certamente perso la guerra fredda, ma forse l’Occidente non l’aveva vinta, nel senso che non era affatto aumentata la sua capacità di gestire la governance mondiale. Sembrava avverarsi il sarcastico bon mot di un alto funzionario sovietico che, poco prima del crollo dell’URSS, aveva detto ai sui interlocutori americani: “Vi faremo una cosa terribile. Vi priveremo del Nemico”.

Non si trattava solo di sicurezza e questioni geopolitiche: la scomparsa della sfida comunista – lo vediamo oggi più che mai – ha liberato il sistema capitalista dalla necessità di fornire risposte politicamente credibili ed economicamente razionali (welfare, meritocrazia, diffusione del benessere, mobilità sociale) che sono risultate clamorosamente vincenti rispetto al fallimento della fraudolenta retorica del sistema sovietico. La fine dell’URSS, in altri termini, non ha privato l’Occidente solo del Nemico, ma anche dallo stimolo derivante dal dover dare risposte diverse alle grandi questioni sociali sollevate dalla sfida comunista. Oggi questa straordinaria capacità politica, vera ragione della vittoria sul sistema sovietico, risulta appiattita se non annullata sotto il dominio totale della finanza.

Il Nemico, tuttavia, non ha tardato a ricomparire, soprattutto con l’incredibile, traumatico evento dell’attacco alle torri gemelle e al Pentagono. Forse un giorno gli storici individueranno l’inizio del secolo XXI nella data dell’11 settembre 2001. Quello che è certo è che il Presidente George W. Bush e i circoli neo-conservatori hanno visto in quel tragico evento la possibilità di superare la perdita di spinta e di direzione prodotta dalla scomparsa del nemico sovietico. In questa visione, la “Global War on Terror” (GWOT) avrebbe sostituito la guerra fredda come nuovo paradigma capace di mobilitare consensi e risorse nel nuovo secolo.

Il progetto, di cui a distanza di dieci anni si può registrare il sostanziale fallimento, era tanto ambizioso quanto concettualmente debole, e questo per una serie di motivi:

1. L’islamismo radicale e violento non ha né la consistenza ideologica né la capacità di radicamento trans-nazionale e trans-culturale del comunismo – che era un fenomeno autenticamente mondiale diffuso per circa 80 anni dalla Bolivia alla Corea del Nord, dall’Italia al Sudafrica.

2. Lo stesso concetto di “guerra al terrorismo” (o, per usare il Bush-speak, “guerra al terrore”) è stato, fin dall’inizio, un’assurdità sia logica che politica, dato che il terrorismo non è una causa, né un fine, ma un mezzo. Un mezzo che può essere usato dagli islamisti radicali ma anche dal “cristianista” Breivik, dai separatisti baschi o irlandesi, dall’Animal Liberation Front, da Timothy McVeigh, dall’Unabomber, un “verde” radicale, e persino dalla Mafia.  Mentre il comunismo, quindi, poteva essere sconfitto, il terrorismo, in quanto strategia piuttosto che causa o movimento, è destinato a rimanere un’opzione possibile per qualsiasi gruppo radicale. In altri termini, proprio non si presta al fine dell’identificazione di un Nemico.

3. Un’altra profonda contraddizione nella strategia post guerra fredda lanciata a seguito dell’attacco di al Qaeda al territorio americano risiede nella reazione unilateralista. Nella sfida contro l’URSS, gli Stati Uniti, continuando e sviluppando il multilateralismo avviato nel corso della seconda guerra mondiale, accettavano di esercitare la propria potenza all’interno dei sistemi di alleanza (in primo luogo la NATO) e nel quadro del sistema delle Nazioni Unite – un sistema alla cui creazione avevano contribuito da protagonisti. Dopo l’11 settembre, invece, la tentazione unilateralista (e unipolare) prodotta dall’euforia per la vittoria sul comunismo sovietico si è combinata con la caduta di ogni remora sia legale che morale nei confronti di un avversario rappresentato come “nemico del genere umano”. Vale la pena di riflettere su questa combinazione, che definisce gli anni di Bush Jr., di ebbrezza unipolare e caduta dei limiti, anche di quelli che pure erano stati riconosciuti (pensiamo alla tortura) nei confronti di un nemico “totale” come il comunismo.

4. Infine, la guerra fredda ha svolto per poco meno di mezzo secolo una funzione definitoria, tassonomica, sia sotto il profilo politico che sotto quello territoriale: NATO da una parte, Patto di Varsavia dall’altro, e in mezzo i non allineati. Le categorie erano chiare, le appartenenze anche. La GWOT, e in genere il confronto con la minaccia del radicalismo islamista, non poteva produrre lo stesso risultato. Basti pensare che, come emerge dalle analisi degli stessi diplomatici americani (rese note da WikiLeaks), risulta chiaro che i finanziamenti ad al Qaeda e agli altri movimenti jihadisti in tutto il mondo provengono prevalentemente da “donatori” sauditi, kuwaitiani e degli Emirati, attraverso un flusso di risorse finanziarie che i governi di quei paesi non hanno contrastato con sufficiente energia e sistematicità. Di fronte al terrorismo amici e nemici si confondono, mentre vi è chi patteggia e collude per essere risparmiato, cercando di dirigere la minaccia terrorista verso altri territori “santuarizzando” il proprio.

Anche questa fase, comunque, è superata. La GWOT è stata formalmente accantonata, come concetto anche se non del tutto come prassi, da parte dell’amministrazione Obama. Intanto, l’uccisione di Osama Bin Laden ha tolto anche quel tanto di simbolicamente unitario che rimaneva ad un movimento articolato rizomicamente, o addirittura trasformato in una estesa e policentrica rete di “franchising”.

Il rischio è che, in assenza di un paradigma sostitutivo sia della guerra fredda che della guerra globale al terrorismo, questo secolo XXI continui ad essere caratterizzato, piuttosto che da un auspicabile policentrismo collaborativo, da una interminabile destrutturazione sia territoriale (con aumento dei separatismi e degli scontri etnici e religiosi) che politica (con una forte crisi della democrazia e la diffusione di populismi a forte contenuto demagogico). Il Nemico, anzi, i nemici, non mancherebbero: da un’interminabile crisi economica all’incapacità di gestire la globalizzazione, dai disastri ecologici ad una criminalità organizzata che sembra diventata, in troppi paesi, norma piuttosto che patologia.

Ma, come dicono gli americani, don’t hold your breath, cioè non aspettiamoci che buon senso e razionalità ci permettano di superare l’atavica logica amico/nemico come base necessaria per l’azione politica. E, nel frattempo, non escludiamo che qualche altro clamoroso, traumatico evento venga a segnare il reale inizio di un secolo che certo, a giudicare dall’inizio, promette tutt’altro che bene.