international analysis and commentary

Quel destino segnato del regime di Damasco

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La guerra civile siriana è arrivata nel cuore della capitale, e il ritmo degli eventi accelera. Deve dunque accelerare anche il ritmo delle decisioni da parte dei paesi coinvolti, a vario titolo, nel tentativo di gestire la crisi.

L’ONU accusa una sorta di ritardo strutturale, probabilmente inevitabile dato il meccanismo decisionale del Consiglio di Sicurezza: si discute così da mesi di eventuali sanzioni condivise contro il regime, mentre ormai quel regime potrebbe essere abbattuto come esito degli scontri in atto. Russia e Cina hanno finora bloccato qualunque risoluzione comprensiva di sanzioni nell’ambito del Capitolo VII della Carta (che prevede azioni riguardo a minacce alla pace, violazioni della pace e atti di aggressione). La risoluzione 2043 del 21 aprile è superata dai fatti, visto che essa stabiliva l’invio di una missione di osservatori (UNSMIS) al fine di verificare il rispetto di un cessate il fuoco che non c’è mai stato – in base al cosiddetto “Piano Annan”.

I ben noti limiti delle missioni di monitoraggio affidate all’ONU sono infatti riemersi puntualmente: i 300 osservatori (che in effetti nel paese sono entrati) sono stati direttamente minacciati e costretti ad abbandonare le zone a maggior tasso di violenza, venendo così meno al loro mandato. Senza una forza di protezione “robusta” (cioè con un ampio mandato, ben armata e addestrata, e numericamente congrua) è chiaro che l’ONU può esercitare al più qualche pressione morale e mantenere un’apparenza di coesione internazionale; poca cosa rispetto al disastro umanitario sul terreno.

I dilemmi in cui si dibatte l’ONU riflettono del resto fedelmente la situazione diplomatica: la scelta occidentale (e in primo luogo americana) è stata appunto di spingersi soltanto fin dove il Consiglio di Sicurezza è collettivamente disposto ad arrivare. Questo vincolo ha naturalmente condizionato l’azione dell’inviato congiunto dell’ONU e della Lega Araba, Kofi Annan, per cui il piano che porta il suo nome prevedeva un negoziato che coinvolgesse Bashar al Assad o comunque il suo governo. Un’ipotesi di fatto respinta da tutte le componenti dell’opposizione armata oggi attive in Siria.

La frammentazione dei rivoltosi è l’altro grave problema per qualunque soluzione “pilotata” della crisi: c’è un rischio altissimo di totale perdita di controllo e violenza anarchica man mano che l’esercito di Assad subisce sconfitte e defezioni. In sostanza, per avviare un vero negoziato mancano le controparti disposte a sedersi a discutere, ma è difficile immaginare una soluzione coercitiva (magari realizzata principalmente da forze interne al paese, pur con massicci appoggi internazionali) che non rischi in pratica di distruggere la Siria. Dobbiamo infatti ricordare che siamo di fronte a una società profondamente divisa, oltre che priva di una memoria di compromessi pacifici: gli alawiti (di confessione sciita, che occupano di fatto i posti di potere) sono meno del 15% della popolazione, che per la grande maggioranza è sunnita; c’è poi la minoranza curda e una presenza cristiana. Nel contesto dell’ascesa (in gran parte democratica) di vari movimenti islamisti in Medio Oriente, è logico guardare con preoccupazione alla prospettiva di una Siria guidata dai Fratelli musulmani (tra i gruppi di opposizione oggi meglio organizzati): l’agenda di tali movimenti non è chiara, ed essi rischiano di essere spinti da gruppi più estremisti – come i salafiti.

La composizione confessionale della società siriana complica dunque i calcoli diplomatici, poiché non basterà rimuovere dai posti di comando lo stretto entourage degli Assad; si dovrà in qualche modo tutelare la minoranza alawita per garantire la sopravvivenza di uno stato unitario ed evitare al contempo repressioni violente e deportazioni (sistematiche o su piccola scala che siano).

Su questo sfondo, si manifesta anche una tensione nella politica seguita fin qui dall’amministrazione Obama che sta influenzando l’intero quadro internazionale: gli Stati Uniti hanno adottato un’estrema cautela fin dallo scoppio delle prime rivolte arabe, incoraggiando alcuni attori regionali (soprattutto i paesi arabi del Golfo e la Turchia) e gli stessi europei a prendersi responsabilità dirette. Lo si è visto nel sostegno alla delicatissima (e tuttora incompleta) transizione egiziana, come nella poco pubblicizzata azione delle truppe saudite in Bahrein nel marzo 2011, e anche nell’operazione della NATO in Libia avviata nello stesso periodo. Tutti casi in cui Obama ha preferito lasciare che paesi amici e partner regionali svolgessero un ruolo da protagonisti. Eppure, questo approccio “indiretto” non esime Washington dallo svolgere un ruolo proattivo che, nella crisi siriana, significa quantomeno frenare una specie di tutti contro tutti: sauditi e qatarini a sostegno di alcune fazioni, turchi a sostegno di altre, oltre alla penetrazione iraniana e dei vari gruppi jiadisti.

E ciò, al punto in cui siamo, implica per gli Stati Uniti molti rischi e alcuni difficili compromessi diplomatici – compreso un collegamento alla questione iraniana. È plausibile infatti che nel calcolo dell’amministrazione Obama il tentativo di influire sugli eventi in Siria sia secondario rispetto all’esigenza di impedire all’Iran di oltrepassare la soglia nucleare militare. In tal caso, si spiegherebbe meglio la prudenza con cui in sede ONU si è gestito il rapporto con Russia e Cina, assolutamente indispensabili per isolare Teheran sia nell’ambito delle recenti sanzioni sia di un eventuale opzione militare contro le installazioni nucleari.

Le vicende siriane vanno insomma analizzate in un contesto ben più ampio che coinvolge tutti gli assetti regionali, dal Golfo a Israele, passando inevitabilmente per il Libano – dove sono schierati anche i soldati italiani del contingente UNIFIL II.

Nel breve termine la pressione militare su Assad si aggiunge al crescente isolamento diplomatico, e con ciò avvicina la fine della sua parabola al potere. Ora la priorità internazionale si sta spostando da un eventuale intervento armato multilaterale contro il regime di Damasco a tutte quelle forme di influenza – forse anche coercitiva – che potranno contenere i pericoli di violenza e disgregazione nel dopo-Assad.

 

Questo articolo è stato pubblicato sul quotidiano “Il Messaggero” il 19 luglio 2012.