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Qualche spazio di manovra per il nuovo presidente iraniano

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Le elezioni che si sono appena concluse in Iran, e che hanno visto la vittoria di Hassan Rohani, hanno stupito molti osservatori e studiosi: in seguito al crescente autoritarismo del regime e all’eliminazione da parte del Consiglio dei Guardiani di un consistente numero di candidati riformisti, si riteneva probabile che ci sarebbero state frodi elettorali. È infatti assai vivo il ricordo delle elezioni del 2009 e il trattamento riservato a due dei principali leader dell’Onda Verde, Mehdi Karroubi e Houssein Mousavi, ad oggi ancora agli arresti domiciliari.

Sono in molti ora a chiedersi quanto Rohani sia moderato e quanto vorrà e sarà in grado di modificare la politica estera e quella interna. Nel contesto iraniano, Rohani, piuttosto che moderato, viene generalmente considerato un conservatore pragmatico, sulla scia di Akbar Hashemi Rafsanjani (che nell’ultima settimana prima delle elezioni ha sostenuto la sua candidatura). La vittoria di Rohani potrebbe indebolire l’egemonia della Guida suprema, Khamenei, ma c’è anche un’interpretazione alternativa: dopo i due mandati presidenziali di Ahmadinejad, che hanno visto il deterioramento dei rapporti tra le due più alte cariche del regime in un clima socio-economico sempre più surriscaldato, il nuovo presidente potrebbe fungere come valvola di sfogo, consentendo alcune aperture sia verso l’opinione pubblica interna che verso la comunità internazionale. Non va poi dimenticato che Rohani rappresenta un elemento di continuità in quanto insider dell’establishment politico; basti pensare alla sua nomina come rappresentante del Leader supremo Khamenei nel Consiglio di Sicurezza Nazionale durata 16 anni e alla sua lunga esperienza politica, incluso il ruolo di negoziatore per la questione nucleare tra il 2003 e il 2005, nella seconda presidenza Khatami.

Se è vero che Rohani non ha mai propugnato cambiamenti strutturali della repubblica islamica, ma ha solo di recente articolato la necessità di riaprire alcuni spazi politici (in particolare la libertà di espressione) e una migliore gestione dell’economia, in politica estera la sua presidenza lascia presagire alcuni significativi cambiamenti di tono, se non di sostanza.

Dato l’impatto sul paese delle sanzioni internazionali e dell’embargo petrolifero europeo, sarà difficile per Rohani affrontare le sfide economiche separatamente dalla questione del nucleare. Nel corso degli ultimi anni, il contesto economico del paese è peggiorato drammaticamente: il rial ha perso l’80% del valore solo nel 2012, le esportazioni energetiche sono diminuite del 40% e le stime ufficiali attestano l’inflazione oltre il 30%. In questo quadro appare chiaro come alleviare l’impatto delle sanzioni sarà una delle priorità della presidenza Rohani.

Uno dei dati più interessanti di queste ultime elezioni è stato il terzo dibattito televisivo (di oltre quattro ore) avvenuto pochi giorni prima del voto, che ha visto gli otto candidati esprimere il proprio punto di vista sui negoziati nucleari. In maniera netta e abbastanza sorprendente, molti dei candidati, Rohani incluso, hanno aspramente criticato la fallimentare gestione del dossier nucleare degli ultimi anni, le sanzioni e l’isolamento internazionale della Repubblica Islamica.

Evitando qualsiasi riferimento critico al Leader supremo, che ha da sempre l’ultima parola nonché potere di veto su qualsiasi azione di politica estera, non sono però mancati gli accenti polemici: ad esempio quelle rivolte da Rohani a Saed Jalili, l’attuale responsabile dei negoziati, di aver irrigidito la posizione iraniana provocando danni economici e una perdita di reputazione internazionale. A questa accusa, Jalili ha risposto accusando Rohani di essersi mostrato troppo morbido con le potenze occidentali quando, nel 2003, acconsentì a una sospensione dell’arricchimento dell’uranio, che venne poi revocata con l’arrivo al potere di Ahmadinejad nel 2005.

Le posizioni di Rohani sulla questione nucleare sono note da quando, in un discorso pronunciato nell’ottobre-novembre del 2004 ma pubblicato solo nel settembre del 2005, con imprevisto candore questi confessava che nella primissima fase di negoziati con la comunità internazionale, la tattica di Teheran era stata quella di cercare di dividere EU-3 da Cina e Russia, indebolendo l’azione coercitiva europea. Rohani, nello stesso discorso, confermava la veridicità di uno dei maggiori sospetti europei, ovvero il tentativo di prendere tempo, cercando nel frattempo di sviluppare quanto più possibile la tecnologia nucleare: si citavano infatti gli esempi di altri paesi che hanno sviluppato un programma nucleare fuori dai trattati per poi negoziare con gli Stati Uniti e la comunità internazionale da una posizione di maggiore forza.

Per il neo-presidente la situazione è ora più complessa: se da un lato apre ai negoziati e al desiderio di rimarginare le ferite nel rapporto con gli Stati Uniti, riducendo l’isolamento internazionale dell’Iran, dall’altro rifiuta a priori l’ipotesi di sospendere l’arricchimento dell’uranio in quanto diritto inalienabile del popolo iraniano, e accenna alla possibilità di mettere in campo altre misure di confidence-building solo a patto che il cambiamento di regime non sia sull’agenda di nessuna potenza internazionale.

Le prime reazioni della comunità internazionale al risultato elettorale sono state positive, con un entusiasmo maggiore nelle capitali europee, ansiose di evitare scenari coercitivi alternativi alle sanzioni, aprire un serio dialogo e riprendere i negoziati. A Washington, l’amministrazione osserva da vicino come il tandem Rohani-Khamenei si assesterà sulle questioni di politica estera, e sembra dimostrare una maggiore prudenza e consapevolezza sia per quanto riguarda i risicati spazi di manovra internazionali di cui Rohani potrà usufruire, che delle sue credenziali come negoziatore. Resta diffusa la convinzione che se il nuovo presidente si mostra interessato al dialogo, contando di poter ridurre l’impatto di alcune misure sanzionatorie nonostante la difficile reversibilità di molte di loro, ciò significa che l’approccio adottato va perseguito. Molti commentatori americani ed europei lodano il dual-track, che dovrebbe in teoria permettere di tenere sempre aperto il tavolo negoziale anche in presenza di sanzioni, ritendendo che questo approccio abbia realmente indebolito il regime, per lo meno in merito alla diminuita capacità di sedare completamente il dissenso che è ora cresciuto con l’aggravarsi della situazione socio-economica. Tuttavia, individuare vie d’uscita resta un compito quasi impossibile: l’inasprimento delle sanzioni e la loro difficile reversibilità, la crescente sfiducia tra le parti e le reciproche paure – da parte iraniana che si miri a un cambiamento di regime, e da parte americana che si voglia solo prendere tempo – sono ormai percezioni radicate. Superarle richiederebbe un impegno negoziale non solo a livello tecnico ma anche culturale, del quale, però, nessuno oggi vuole parlare.