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Il nuovo negoziato economico euro-americano ai blocchi di partenza

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I flussi commerciali e finanziari tra Unione Europea e Stati Uniti danno origine alla maggiore relazione economica del mondo. Da circa un anno e mezzo, la Commissione europea e il governo americano lavorano all’apertura delle trattative per un accordo che dovrebbe abolire le barriere tariffarie e normative ancora esistenti tra i due colossi. L’apparente unanimità che sosteneva la posizione di mandato aperto (negoziati in tutti i settori) per i tecnici di Bruxelles è però caduta per la volontà francese di escludere il settore audiovisivo; i round negoziali non saranno rapidi e tranquilli come alcuni si augurano.

Ben tredici ore di discussione tra le parti sono state necessarie perché la Commissione ottenesse il mandato negoziale dagli stati dell’UE. I tecnici europei, infatti, potranno d’ora in poi agire senza che alcun organo abbia il titolo ufficiale per vagliare o indirizzare il contenuto delle trattative. In caso di chiusura positiva, il Consiglio europeo dovrà allora approvare all’unanimità l’intero contenuto della Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP). Ma difficilmente un singolo paese avrà la forza di opporsi – a cose fatte – ad un accordo fortemente voluto non solo dalla Casa Bianca e dal presidente della Commissione José Manuel Durão Barroso, ma anche dalla Germania e dal Regno Unito.

Solo prima dell’apertura delle trattative uno stato avrebbe potuto influenzare il contenuto del mandato. È quel che è riuscita a fare la Francia nel nome dell'”eccezione culturale”, cioè il regime fiscale fortemente protezionista che assicura ai prodotti audiovisivi nazionali finanziamenti e quote di mercato. Già nel 1993 Parigi aveva inserito questo principio nelle trattative per il rinnovo del General Agreement on Tariffs and Trade (GATT): un film non poteva essere considerato “merce ordinaria”, e la Francia otteneva di poter imporre delle tariffe sui prodotti culturali stranieri, nonostante l’opposizione degli Stati Uniti.

Questo precedente ha consentito al presidente François Hollande, benché ufficialmente nessun’altra capitale lo sostenesse, di non cedere di fronte alle pressioni inglesi e tedesche: a fianco di Parigi, solo una quindicina di ministri della cultura – il regime attuale consente a tutti i paesi europei di mantenere quote protette – e una buona maggioranza di europarlamentari. Dunque, l’eccezione culturale sarà “blindata” anche nella TTIP: il settore audiovisivo, che in Europa vale 17 miliardi l’anno, resterà del tutto al di fuori delle contrattazioni: i tecnici della Commissione potranno reinserirlo solo con una decisione unanime di tutti gli stati membri (e quindi anche della Francia).

Berlino e Londra, convinte della bontà del mandato aperto e forti delle stime economiche – secondo la visione più ottimistica l’accordo assicurerebbe al vecchio continente 400.000 posti di lavoro, mezzo punto di PIL e il 18% di esportazioni in più – avevano provato a convincere Parigi con la garanzia che le protezioni attuali non sarebbero state toccate, e che anzi sarebbero state estese anche alle tecnologie informatiche ora monopolizzate dai colossi americani Google e Facebook.

Barack Obama non aveva poi mancato di far sapere che l’esclusione del settore audiovisuale non sarebbe stata apprezzata a Washington. Tuttavia, la posizione francese è restata irremovibile, mentre il Regno Unito e la Germania hanno finito per cedere di fronte ai vantaggi politici derivanti da un inizio dei negoziati prima dell’estate: l’evento “illuminerà” la presidenza britannica del G8 e, in apertura di campagna elettorale, potrà essere portato in dote dalla Cancelliera Angela Merkel alle tantissime imprese esportatrici tedesche.

In ogni caso, lo svolgimento dei negoziati non sarà semplice. Ciò che impedisce il raggiungimento del pieno potenziale delle relazioni economiche tra Unione Europea e Stati Uniti non è tanto la presenza di dazi: questi sono ormai scesi a un valore medio del 3-4%. Piuttosto, negli anni sono state ideate procedure doganali e normative interne con il preciso scopo di limitare il flusso di merci in arrivo dall’estero. In diverse materie le posizioni di Bruxelles e Washington sono lontane: agricoltura, norme sanitarie, apertura dei mercati pubblici, protezione dei dati. Inoltre, di fronte al blocco sull’audiovisivo, gli USA potrebbero essere tentati di escludere a loro volta dalle trattative alcuni ambiti da loro considerati strategici.

In mancanza di una compiuta e coerente politica commerciale estera dell’Unione Europea, e anche se il suo peso economico è complessivamente maggiore, sono gli Stati Uniti ad avere in mano il pallino dell’importantissima partita politica che si giocherà durante le trattative. Attraverso l’armonizzazione doganale e normativa tra le due sponde dell’Atlantico – obiettivo centrale dei negoziati – la Casa Bianca non punta solo a facilitare le esportazioni americane, ma soprattutto a costruire un sistema di regolamentazioni economiche che successivamente potrà essere imposto con più facilità alle potenze emergenti, in particolare alla Cina. Con identico scopo, parallelamente alla TTIP, gli Stati Uniti stanno negoziando un trattato commerciale con alcuni importanti paesi che si affacciano sull’Oceano Pacifico, tra cui Canada, Messico, Australia, Vietnam e Malesia.

A convincere i membri dell’Unione Europea della necessità di giungere a un accordo, sono soprattutto i benefici economici e occupazionali nel breve periodo. Un accordo entro fine 2014, come auspicato dalla Commissione, appare però improbabile. I negoziatori di Bruxelles avranno sì mano libera, ma quelli di Washington dovranno affrontare, quasi in ogni fase delle trattative, il voto del Congresso degli Stati Uniti. Sarà dunque difficile per loro cedere su punti come l’apertura dei servizi pubblici locali alle imprese non americane, la liberalizzazione dei voli o della navigazione interna, o la riapertura dei mercati locali alle carni bovine europee (ancora bandite per “mucca pazza”).

Dunque, allo stesso tempo, gli stati membri già “perplessi” non accoglieranno al meglio eventuali aperture troppo rapide e generose da parte europea. La Francia non ha alcuna intenzione di facilitare il lavoro al capo delegazione Karel De Gucht, sia per timore della reazione dell’opinione pubblica, sia per non offrire ai commissari, in scadenza di mandato proprio a fine 2014, dei risultati politicamente spendibili nella formazione dei prossimi organi comunitari o altrove – proprio Barroso sta intensificando i suoi rapporti personali con Washington, in vista di future candidature alla segreteria della NATO o dell’ONU.

Se dal punto di vista strategico l’Unione Europea è a rimorchio di Washington, non va però data per certa una conclusione positiva delle trattative. Dato che l’UE produce una mole di norme commerciali molto superiore agli Stati Uniti, è chiaro che un compromesso tra i due non potrà che indebolire il sistema regolativo di cui i membri dell’Unione sono molto gelosi, soprattutto in materia agricola e alimentare.

Si tratta di un punto delicatissimo, a maggior ragione considerando che a maggio del 2014 si terranno cruciali elezioni europee (che potrebbero addirittura eleggere il prossimo presidente della Commissione o del Consiglio); la “svendita dei nostri mercati” al neoliberismo americano potrebbe diventare un tema di campagna, così come il mancato rispetto delle prerogative nazionali. E non è detto che il Parlamento approvi in silenzio il lavoro della Commissione: già un anno fa l’Eurocamera ha respinto la ratifica dell’ACTA (Anti-Counterfeiting Trade Agreement, accordo mondiale anti contraffazione e pirateria) perché non rispettava i diritti dell’uomo. Come in ogni snodo cruciale della politica continentale, dunque, l’esito della TTIP è tutt’altro che scontato.