international analysis and commentary

Qualche lezione europea dalla Scozia

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Il no all’indipendenza ha vinto, come ma anche meglio del previsto. In Gran Bretagna, in Europa e nel mondo molti tirano un giustificato sospiro di sollievo. Come insegna il precedente canadese, il problema non scomparirà ma sarà lasciato dormire almeno per un po’. Ora si apre nel Regno (ancora) Unito una fase di riforma costituzionale; sarà molto delicata perché per risolvere la questione scozzese Cameron dovrà aprire anche la molto più ardua “questione inglese”. Tuttavia, sono problemi che dovranno risolversi in casa; a noi interessano gli effetti sul resto dell’Europa.

Cosa cambia? La risposta rapida è: non molto. Certo, ci saranno ripercussioni su altre spinte separatiste, a cominciare dalla Catalogna, ma anche quelle dovranno essere affrontate e risolte in casa propria. Per il futuro dell’UE, che è ciò che più ci preoccupa, tutto resta come prima, compreso il cosiddetto problema britannico.

Possiamo quindi permetterci il lusso di riflessioni più “filosofiche”, anche se meno attuali. Per anni ci è stato detto che l’esperimento d’integrazione transnazionale è destinato a fallire; solo le nazioni sono capaci di suscitare quel sentimento di appartenenza collettiva necessario perché i popoli pensino a un destino comune, fino alla volontà di morire per la patria. In altri termini, le nazioni sono eterne; sono esse che creano il presupposto per il funzionamento delle istituzioni democratiche e non viceversa. Tutto il resto è precario. È come se ciò che è successo in Europa fra il diciottesimo e il diciannovesimo secolo avesse costituito veramente “la fine della storia”. Questo sentimento si è diffuso in tutta Europa ma è particolarmente radicato nelle due grandi “nazioni” del continente: la Francia e la Gran Bretagna. Entrambe sono state grandi, ma a ben vedere è stata la gloria imperiale a creare il sentimento nazionale e non il contrario.

Il caso della Gran Bretagna è emblematico. L’assorbimento della Scozia fu doloroso e sanguinoso; tuttavia la conquista e poi l’amministrazione dell’impero fornì a tutti, ma particolarmente agli scozzesi che vi giocarono un ruolo di primo piano, l’ebbrezza (e i cospicui vantaggi) di una sfida collettiva. Finito l’impero, i problemi con la loro scia di risentimenti e rancori sono tornati intatti. La Britishness, la nazione britannica, avrebbe dovuto animare di passione la campagna referendaria. Invece non è stato così. Tutta la passione era dalla parte degli indipendentisti; gli altri hanno risposto, e hanno prevalso, usando la fredda ragione e il calcolo economico. Meglio così, ma quale migliore dimostrazione che la Gran Bretagna è afflitta da una profonda crisi d’identità?

Non è il solo caso. Tutte le nazioni europee soffrono della stessa sindrome. I dubbi identitari creano classi dirigenti incerte e deboli, sistemi costituzionali non più condivisi e solidarietà sociali evanescenti. Ma siamo sicuri che si tratti solo di crisi delle identità nazionali? In realtà la crisi d’identità riguarda l’Europa intera. Cosa sono gli europei se non un insieme di popoli passati nel breve giro di un secolo dal dominio del mondo, a due tentativi di suicidio collettivo, al rischio di essere relegati al margine della storia? La risposta non è semplice, ma si potrebbe almeno cominciare con la consapevolezza che gli assassini dell’Europa sono state proprio le nazioni che si vorrebbero eterne. Assassini tanto più subdoli in quanto si è preteso di affermare un matrimonio indissolubile fra la nazione e la democrazia: lo stucchevole ritornello sull’assenza di un “demos” europeo. Si potrebbe cominciare dalla convinzione che le nazioni sono semplici costruzioni storiche, altrettanto precarie e fragili delle deboli istituzioni sovranazionali che tentano di superarle. Nei primi commenti al referendum spunta una domanda insidiosa: se il federalismo è la risposta alla crisi della Gran Bretagna, perché non ammettere che può anche essere la risposta alla crisi dell’Europa? Purtroppo non vi è nessuna speranza che questa analisi animi il prossimo dibattito sul futuro della Gran Bretagna. È lecito sperare che i popoli del continente, con tutte le gigantesche difficoltà che ciò comporta, siano capaci di maggiore lucidità.