La risposta è che dovrà farlo, ma sarà un “deal” diverso da quello di Franklin Delano Roosevelt. La tentazione di tracciare dei paralleli è forte. FDR inaugurò una nuova era di politiche economiche keynesiane che portarono in ultima analisi alla fine della Grande Depressione. La politica fiscale divenne il nuovo strumento che trascinò il paese fuori dal suo stato di crisi inaugurando un lungo periodo di riduzione delle ineguaglianze. Il presidente Obama si troverà ora di fronte una situazione economica molto difficile, con il rischio di una lunga e profonda recessione che, per molti americani, potrebbe essere percepita come una Depressione. Le stime di un tasso di disoccupazione che raggiunga l’8% o anche oltre sono ormai diffuse; e in un paese con scarse tutele per la disoccupazione, un sistema di assicurazioni sanitarie legate all’impiego, e le più gravi ineguaglianze di reddito degli ultimi decenni, una fase prolungata di profonda stagnazione economica potrebbe essere molto difficile da gestire. Anzi, potrebbe facilmente sfociare in fenomeni di instabilità sociale.
Ma non sono soltanto le prospettive ad essere preoccupanti: in termini economici lo “Stato dell’Unione” era molto fragile anche prima che arrivasse la recessione. Ora, con i tassi di interesse già all’1%, un deficit fiscale che si avvicina al trilione di dollari, una massiccia emissione di titoli del debito per finanziare gli sforzi di salvataggio del settore bancario e un sistema finanziario in bancarotta, lo spazio per stimolare ulteriormente l’economia è molto limitato. In effetti, gli Stati Uniti dovranno convincere il resto del mondo che, pur con questi fondamentali negativi, finanziare il loro deficit delle partite correnti continua ad essere una strategia di investimento conveniente; altrimenti si troverà di fronte a una contrazione ancora più marcata. Dunque, il “deal” che Obama deve realizzare è complicato: deve ristabilire la fiducia del resto del mondo nell’architettura politica e finanziaria americana, seriamente danneggiata dopo la guerra in Iraq, il fiasco dei subprime e la triste saga del piano di salvataggio di Paulson, il Troubled Asset Relief Program (TARP).
Come ho sottolineato in un articolo su Aspenia a inizio 2008 (“La fine della locomotiva americana”, Aspenia n.40 – Elezioni globali), gli Stati Uniti sono diventati talmente dipendenti dal resto del mondo da rendere davvero problematiche le loro prospettive fiscali di lungo termine. Un modo semplice di capire il problema è questo: in base ai dati del gennaio 2008, il Government Accountability Office (GAO) ha mostrato che, seguendo le politiche attuali – cioè assumendo che i programmi di spesa in corso continuino ai livelli attuali e che le entrate restino ai livelli derivanti dai tagli fiscali di Bush resi permanenti – la spesa totale obbligatoria esaurirebbe le riserve per il 2024. In altre parole, tra sedici anni l’America avrebbe soltanto il denaro necessario per pagare la Social Security, le varie deduzioni fiscali (compresa la Sanità) e i pagamenti degli interessi. Se aggiungiamo la spesa derivante dalla crisi del credito, questa scadenza viene anticipata di due anni. In sostanza, nei due prossimi decenni gli Stati Uniti dovranno prendere una decisione: prendere a prestito molto più denaro, aumentare le tasse, o tagliare la spesa.
Questo è il New Deal di Obama: dovrà lavorare duro per assicurarsi che il paese possa continuare almeno a funzionare normalmente, prima ancora che stimolare una ripresa economica. Se vorrà ristabilire la fiducia nel sistema finanziario – per finanziare così il deficit corrente – dovrà ristrutturare e consolidare le troppe autorità di supervisione che hanno agito in modo scoordinato. E dovrà fare scelte difficili sul piano interno per aumentare le entrate e tagliare la spesa, in modo da ridurre anche le diseguaglianze, ampliare la rete della protezione sociale e mantenere la crescita della produttività. Le decisioni di Obama riguardano insomma la sostenibilità stessa dell’economia americana nel lungo periodo: potrebbe non avere il lusso di organizzare una ripresa di breve termine. Piuttosto, la priorità è quella di aggiornare e migliorare il contratto sociale tra gli Stati Uniti e i loro cittadini, ma il margine di manovra è ristretto e soprattutto dipende in misura determinante dalle opinioni e dai desideri del resto del mondo.
Le priorità sono chiare: concentrarsi sulle attività che offrono ritorni di lungo periodo, come il miglioramento dei deboli sistemi dell’istruzione primaria e secondaria nonché la garanzia dell’assistenza sanitaria a tutti gli americani. Ma, cosa ancora più importante, Obama dovrà cambiare gli incentivi che hanno prodotto la cultura del mix “gratificazioni istantanee, niente risparmio, alto debito”. Una fetta significativa del differenziale di crescita tra gli USA e la UE negli ultimi anni è dovuta al più alto tasso di “leverage” nell’economia americana. Ora ci rendiamo conto che quel tasso non era sano, e saranno le conseguenze della crisi a dirci quanto quel differenziale sia realmente sostenibile. Non dimentichiamo che una fondamentale ragione del maggiore tasso di produttività negli USA è stata il più ampio e “più efficiente” settore dei servizi finanziari. Data la dimensione delle perdite, quando la storia sarà finalmente scritta quel differenziale potrebbe risultare fortemente ridimensionato.
Come potrà Obama cambiare gli incentivi alla base di questa situazione? Per cominciare, migliorando gli standard per la sottoscrizione nell’industria bancaria, evitando che le carte di credito e i prestiti siano concessi con eccessiva facilità. I mutui inoltre dovrebbero prevedere la possibilità di ricorso, per prevenire gli episodi di insolvenza su vasta scala che stiamo vedendo in questo periodo. E le securities garantite dai mutui dovrebbero forse evolvere in obbligazioni basate sui mutui (i cosiddetti covered bonds), che sono più costosi per le banche in termini di capitale ma che, rischiando direttamente il proprio denaro, le costringono a concentrarsi su una più attenta gestione del rischio.
Dovendo scegliere tra un ventaglio assai limitato di opzioni, Obama ha di fronte un test molto serio delle sue capacità politiche per i prossimi anni. Il “bonus” che il mondo ha concesso agli Stati Uniti dopo la Seconda Guerra Mondiale si è in gran parte esaurito, e ora anche loro dovranno giocare con le stesse regole degli altri, con le restrizioni e i limiti che ne derivano. Sarà davvero un New Deal.