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Politica ed economia in Giappone sullo sfondo del disastro

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Il terremoto e lo tsunami hanno sconvolto il Giappone in una fase molto delicata, in cui all’annuncio di “epocali” riforme si affiancava, in modo contraddittorio, una instabilità politica che rischiava di preludere a elezioni anticipate. Ora il quadro è comunque trasformato. Una inevitabile tregua politica, e scelte economico-finanziarie obbligate dettate dalle priorità della ricostruzione, dovrebbero dare ossigeno al governo guidato da Naoto Kan; e se non accresceranno i consensi alla sua linea innovativa, quantomeno dovrebbero tagliare l’erba intorno ai suoi oppositori.

Prima del disastro dell’11 marzo, la situazione politica era poco chiara. Kan era uscito vittorioso dallo scontro interno col suo avversario di sempre, Ichiro Ozawa, in quel Partito democratico (DPJ) che aveva trionfalmente vinto le elezioni del 2009. Il partito aveva però perso rapidamente credibilità: la sua popolarità nei sondaggi era crollata intorno al 20%. Intanto, la fronda interna al DPJ minacciava ormai apertamente di lasciare il partito. Il Partito liberal democratico (LDP), all’opposizione, pur senza disporre di leader carismatici e di idee alternative era pronto a sfruttare ogni occasione per dare la spallata finale al governo. Cresceva invece il partito della protesta, del rifiuto demagogico della politica, che stava diventando una “terza forza” ingombrante, paragonabile lungo lo spettro ideologico ad una sorta di tea party in stile nipponico.

Il mese prossimo erano previste elezioni comunali e provinciali (ora sospese nelle aree colpite dal sisma) che avrebbero potuto suonare come una campana a morto per Kan qualora il suo partito avesse fatto registrare una caduta verticale di voti.  Il 1 marzo era passata alla Camera bassa, dove il governo dispone della maggioranza, la contestatissima legge finanziaria. Ma lo scoglio in realtà non era stato superato, perché poche apparivano le possibilità di fare approvare le cosiddette norme attuative, senza le quali la finanziaria resta lettera morta. Per tale approvazione serve infatti il si del Senato, dove Kan non ha invece la maggioranza, o quello dei due terzi della Camera.

Si era profilata allora un’ipotesi di compromesso in base alla quale il DPJ avrebbe barattato con l’opposizione le dimissioni di Kan in cambio di un voto favorevole al Senato. Due le giustificazioni: in primo luogo per questa via entrambi i partiti evitavano le temute elezioni anticipate; in secondo luogo si trattava solo di prendere atto che, epurate dalla propaganda, le posizioni dei due schieramenti non erano poi incompatibili – neppure sulla necessità di alzare fino al 10% l’imposta sui consumi per contenere un deficit pubblico che è il più alto dei paesi industrializzati (intorno al 200% del PNL).

Forti resistenze a un tale compromesso si registravano sia all’interno del partito di governo che dell’opposizione, nonché di gruppi minori che appoggiano il governo. I fautori dell’antipolitica hanno fatto proprio della lotta all’imposta sui consumi la loro bandiera. A peggiorare la situazione erano poi giunte, il 6 marzo, le dimissioni del ministro degli Esteri Seiji Maehara, considerato da molti il personaggio politico in maggiore ascesa, anche per aver ricucito i rapporti con gli Stati Uniti dopo la cattiva gestione del governo Hatoyama.

In sostanza, Kan rischiava di essere il quinto primo ministro consecutivo a uscire di scena dopo appena un anno, sebbene a suo sostegno si fossero schierate sia le associazioni degli industriali sia la stampa – a partire dal più diffuso quotidiano del paese, lo Yomiuri Shinbun. Kan aveva annunciato una grande iniziativa politica per colpire uno dei cardini dell’economia giapponese, il protezionismo. Questo era stato identificato come la causa di fondo dell’incapacità del paese di uscire dalla crisi in cui naviga da un ventennio: basti pensare che tra il 2000 e il 2008 il Giappone è sceso dal terzo al 23° posto nella classifica del reddito pro capite. Mantenere posizioni di forza a livello mondiale in settori chiave come l’automobile e l’elettronica non è più sufficiente a sostenere la crescita: i dati dell’ultimo trimestre del 2010 hanno registrato -1,3%. Inoltre, la concorrenza viene in parte da attori relativamente nuovi, come la Corea de Sud, con una presenza finanziaria crescente in Giappone e assai più agile nel conquistarsi quote internazionali di mercato grazie ad accordi di libero scambio – per cui solo il 16% del commercio giapponese è rivolto ad aree coperte da accordi di libero scambio, cioè percentualmente meno della metà rispetto alla Corea del Sud.  Le riforme di Kan prevedono l’adesione alla Trans Pacific Partnership, con la creazione di una vera area di libero scambio con gli Stati Uniti, oltre ad Australia, Brunei, Cile, Malaysia, Nuova Zelanda, Perù, Singapore e Vietnam. Questo implica però ristrutturare tutto il settore agricolo, cioè il grande serbatoio elettorale del LDP, abolendo le barriere che salvaguardano i produttori di riso e incentivando colture export-oriented.

È su tale scenario che si è abbattuto il terremoto dell’11 marzo: alcune linee di tendenza saranno certamente rallentate, ma altre potrebbero subire un’accelerazione. Vari economisti hanno ricordato come i disastri naturali sono spesso assorbiti senza gravi traumi dalle economie più avanzate, e come un rilancio dell’economia può essere trainato dal settore delle costruzioni. Tuttavia, la cautela è d’obbligo: ad esempio, i paragoni con il terremoto di Kobe del 1995 – danni per 100 miliardi di dollari, borsa crollata in una settimana del 10%, ma nessun grave danno nel lungo termine – servono a poco. Ora, nella migliore delle ipotesi, i danni sono di entità doppia. Gli interventi di emergenza della Banca centrale, precipitatasi a riversare liquidità nel sistema bancario, sono sembrati inevitabili (del resto, i tassi di interesse sono già così bassi da non potere essere ulteriormente abbassati), ma non è detto che siano sufficienti.

Se il Tohoku, la regione più colpita, è assai meno vitale per l’economia giapponese di quanto non fosse il triangolo intorno a Kobe, è pur vero che i problemi nucleari e i blackout a singhiozzo rischiano di avere un impatto molto negativo sulla produzione e quindi sulle esportazioni. Le grandi multinazionali – come Sony, Toyota, Honda – saranno in qualche misura favorite dalla deterritorializzazione, che ridurrà l’impatto sull’export; ma lo Stato dovrà contrarre nuovi debiti per lavorare sulle infrastrutture. Intanto, la corsa al gas naturale e al petrolio, per bilanciare la chiusura delle centrali nucleari in panne, avrà effetti sul prezzo degli idrocarburi. Si prevede anche un rafforzamento dello yen per il rientro di capitali necessari allo sforzo di ricostruzione – soprattutto mediante un disinvestimento dal mercato finanziario americano – e anche questo non gioverà alla competitività dei prodotti nipponici.

Dopo il dramma del terremoto e dello tsunami, e con la gigantesca incognita nucleare, per il Giappone la recessione è dietro l’angolo.