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Perché Israele non teme più le rivolte arabe – né le abbraccia

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A due anni dalle prime rivolte in Tunisia con le loro ramificazioni regionali, Israele guarda con favore ad almeno due fattori: il generale ritorno all’ordine e alla calma (sebbene con la grave eccezione della vicina Siria), e il fatto di non essere stato coinvolto nelle crisi che hanno agitato molti paesi arabi.

Il giudizio sui due anni appena trascorsi resta in effetti complessivamente negativo, ma quello sugli scenari che si aprono si presta a un maggiore ottimismo. I nemici storici di Israele si sono indeboliti – in particolare Hamas nella Striscia di Gaza – e anche quelli militarmente più potenti – come Hezbollah, l’Iran e il regime siriano – sono impegnati in altri conflitti che li distolgono dalla “liberazione della Palestina”.

Aveva ragione l’ex capo del Mossad, Meir Dagan, a dichiarare alla stampa, nel luglio del 2012, che grazie alle rivolte arabe le minacce militari ad Israele sarebbero scomparse per i successivi tre o cinque anni (Kalkalist, Ynet, 7/7/2012). Della stessa opinione era stato anche Amos Yadlin, ex capo dell’Intelligence militare, che aveva previsto già nel 2011 che “le Primavere arabe avrebbero indebolito l’alleanza radicale contro Israele” (Ynet, 20/6/2011). Le loro opinioni, all’epoca in netta minoranza rispetto alle posizioni catastrofiste assunte dall’asse Lieberman-Netanyahu, riecheggiano oggi come lungimiranti, sebbene allora l’opinione pubblica israeliana – circa il 68% nel novembre 2011, secondo i dati del Peace Index dell’IDI (Israeli Democracy Institute) – fosse orientata, in linea con il governo, a ritenere le rivolte estremamente pericolose per Israele. Nell’ultimo sondaggio dell’ottobre 2013, al contrario, il giudizio risulta quasi rovesciato: solo il 28% degli ebrei israeliani e il 23% dei palestinesi d’Israele ritiene le preoccupazioni militari e attinenti alla sicurezza prioritarie rispetto ai temi socio-economici. Indice che le Primavere arabe, pur agitando in superficie la regione, non hanno smosso gli equilibri profondi che erano alla base dello status quo.

Oggi infatti in Tunisia, Egitto, Libia, ma anche in Qatar, Bahrein, Marocco e Algeria, si assiste ad un ripiegamento verso l’interno, analogo a quello israeliano, delle rispettive opinioni pubbliche. Queste sono impegnate ad affrontare gli urgenti problemi posti dalla crisi economica e dalla disoccupazione, mentre l’Iran di Hassan Rohani mostra alla comunità internazionale la sua volontà, vera o posticcia, di distensione sul dossier nucleare.

A questa tendenza fanno eccezione solo il Libano, trascinato nella guerra civile siriana, e, parzialmente, Turchia, Iraq e Giordania, direttamente interessate dall’abbondante flusso di profughi siriani che continuano a cercare scampo oltreconfine. Israele, dal canto suo, ha rifiutato loro l’ingresso anche in presenza di gravi e accertate violazioni dei diritti umani, ribadendo che spetta ai Paesi arabi farsi carico dei propri “confratelli” e rifugiati della guerra civile siriana – quasi a creare un’analogia con i palestinesi del 1948, la cui sorte è tuttora in discussione nelle trattative segrete di pace in corso in questi mesi. Riguardo ai profughi siriani, è trapelata su alcuni giornali israeliani vicini al governo – come Ma’ariv e Makor Rishon – la notizia che alcuni ministri siano attualmente impegnati a definire il tracciato di una nuova “barriera di separazione” da erigere nella valle della Giordano lungo tutto il confine con il regno hashemita, in modo da ostacolare proprio il flusso di rifugiati verso Israele. La costruzione del nuovo muro dovrebbe avere inizio appena completata quella attualmente in realizzazione nel Sinai lungo il confine con l’Egitto. L’intento sarebbe quello di sigillare Israele – e con esso la West Bank – rispetto al complesso dei problemi regionali, ritagliando una sorta di oasi di pace e prosperità.

Gli israeliani hanno assunto un atteggiamento preoccupato ma anche piuttosto distaccato verso le rivolte arabe e le loro ripercussioni. È però un dato incontrovertibile che Israele, a distanza di due anni, abbia guadagnato maggiore credito presso il mondo arabo sunnita, per due diverse, e in parte opposte, ragioni.

La prima è che una parte, seppur minoritaria, dei giovani “rivoluzionari” traditi nelle loro aspettative di giustizia sociale e progresso – soprattutto in Egitto a seguito del fallimentare governo democraticamente eletto del presidente Mohamed Morsi – avrebbero cominciato a guardare ad Israele come un modello positivo di progresso sociale, economico e tecnologico. Sembra così essersi diffusa la percezione di un Paese – come sostiene Kamal Ali Hassan nel suo report sui nuovi think tank arabi (Mitvim, “The New Kingdom of Forces: Research Institutes in the Middle East”, 2013) – che “ha a cura i diritti dei propri cittadini e delle persone”, ciò che le nuove generazioni dei Paesi arabi hanno auspicato per sé scendendo in piazza e sfidando i regimi autoritari. La seconda ragione, di segno quasi opposto, è che i governi dei regimi arabi moderati del Golfo – e in particolare le monarchie degli Emirati Arabi Uniti e quella saudita – avrebbero tacitamente riconosciuto una convergenza di interessi strategici con Israele almeno su tre punti fondamentali: la netta opposizione al nucleare iraniano, ai Fratelli musulmani che per alcuni mesi sono stati al potere in Egitto, e al regime di Assad in Siria. In definitiva, Israele avrebbe guadagnato consensi presso due segmenti radicalmente diversi e separati del mondo arabo, cioè i giovani delle piazze e le monarchie conservatrici del Golfo; entrambe si possono “giocare” come carta per contrastare Hamas e Hezbollah nello scacchiere mediorientale. Non è poco per un Paese che negli ultimi due anni ha deciso di tenersi al margine dei grandi eventi regionali.

Tuttavia, Israele non ha colto questa grande opportunità fino in fondo. Moshe Ma’oz, professore emerito all’Università ebraica e direttore del Truman Institute, sostiene infatti che ci sono due dossier sui quali Israele avrebbe dovuto insistere maggiormente: il ripristino di buone relazioni con la Turchia, (in particolare alla luce della convergenza di interessi tra i due Paesi sulla Siria), e il recupero dell’Iniziativa di pace araba del 2002 come base di negoziato con l’ANP in vista di una soluzione permanente, multilaterale e consensuale del conflitto arabo-israeliano. Una tale duplice scelta avrebbe tolto ad ampi segmenti di opinione pubblica araba, tutt’ora fortemente ostili ad Israele, il pretesto per strumentalizzazioni politiche, spianando così la strada alla potenziale integrazione di Israele nella regione. In entrambi i casi, l’iniziativa diplomatica sarebbe spettata al governo Netanyahu: era stato Israele, infatti, nell’agosto del 2011, a rifiutare un compromesso sulla vicenda della Freedom Flotilla provocando l’ira del governo Erdoğan, e a non fornire una risposta ufficiale al Arab Peace Initiative, decretandone così l’accantonamento da parte degli USA. Adottando una strategia più lungimirante, sommata ad una precisa posizione anti-Assad e anti-alawita in Siria e ad un appoggio ufficiale al colpo di Stato in Egitto, Israele avrebbe potuto (e potrebbe ancora) rafforzare i propri rapporti con l’asse sunnita, che secondo molti è destinato ad uscire vincente dal braccio-di-ferro regionale con i movimenti sciiti.

Governo e opinione pubblica israeliana, tuttavia, non sembrano interessate a partecipare maggiormente ai sommovimenti regionali, ma piuttosto a chiamarsene fuori. L’unica eccezione erano stati, per una breve ragione, i giovani manifestanti di Tel Aviv, che sull’onda della protesta sociale dell’estate 2011 avevano brandito slogans come “Rothschild, un angolo di Tahrir”, richiamandosi così apertamente alla rivoluzione dei giovani egiziani. Gli obiettivi di quelle proteste sembrano però essere rimasti limitati e non hanno avuto seguito. I giovani di Boulevard Rothschild non sono infatti riusciti a creare un collegamento tra le loro rivendicazioni sociali ed economiche e la richiesta di maggiore rispetto dei diritti umani di tutti, inclusi i palestinesi, da parte di uno Stato democratico quale Israele. Persino coloro – come i pacifisti di Gush Shalom e di J-Street – che hanno sempre posto al centro della propria azione politica la fine dell’occupazione dei Territori e il riconoscimento di uno Stato palestinese indipendente, non sono riusciti a riconoscere nelle Primavere arabe un esempio positivo da seguire ed adottare anche nei Territori. Il discorso pacifista israeliano, vecchio di quaranta anni ed erede della guerra dello Yom Kippur (o di ottobre, del 1973), non è riuscito ad abbracciare il discorso sui diritti umani, civili e politici, da affiancare alla logica dei “due Stati”.

La percezione generale delle Primavere arabe da parte dell’opinione pubblica israeliana rimane di parziale diffidenza: l’assunto per cui i Paesi arabi sarebbero incapaci di conseguire la democrazia ha, infatti, attecchito negli strati più profondi della società. Su questa diffidenza giocano anche coloro che preferiscono richiamare all’attenzione pubblica le conseguenze negative delle rivolte arabe, ovvero l’insorgenza di movimenti islamici radicali in Yemen e in Siria, dell’islam politico alla guida del Paese in Tunisia, della consistente presenza salafita in Egitto, e della cruente ribellione libica che ha portato il paese nel caos.

Tutto ciò, sommato alla calma apparente che regna in Cisgiordania, rende più improbabile che gli Israeliani si rendano conto della necessità di addivenire ad un accordo di pace con i palestinesi il prima possibile, nel proprio stesso interesse strategico. È probabile, dunque, che anche questa occasione andrà persa e che allo scadere dei nove mesi previsti come termine ultimo per gli attuali negoziati – che Yasser Abed Rabbo dell’Esecutivo dell’OLP ha definito i “peggiori degli ultimi venti anni” (Ma’an news, 13/10/2013) – questa finestra verrà richiusa. Israele si troverà allora nuovamente isolato a fronteggiare i suoi vicini e i gruppi, più o meno ostili, che potrebbero prendere il sopravvento a seguito dell’eventuale sfaldamento di alcuni degli Stati nazionali arabi usciti dalle rivolte.