international analysis and commentary

Papa Francesco e il Mediterraneo

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Il papa venuto dalla “fine del mondo”, il pontefice delle periferie, che ha messo in discussione l’eurocentrismo della Chiesa, a sorpresa colloca il Mediterraneo al centro della sua azione diplomatica. Al principio nessuno avrebbe mai immaginato che le sorti dei Paesi che si affacciano sul “Mare nostrum” sarebbero state così presenti nell’agenda del pontefice argentino. Molto probabilmente non si tratta di una strategia studiata a tavolino. Piuttosto Bergoglio in maniera naturale, quasi istintiva, mosso dalla sua sensibilità, si è trovato a poco a poco a prestare un’attenzione diretta ai drammi, alle sfide e alle povertà che segnano oggi il Mediterraneo.

Ha iniziato con la visita a Lampedusa l’8 luglio 2013, la sua prima uscita fuori del Vaticano. Il pontefice, figlio di emigrati italiani in Argentina, ha voluto incontrare i clandestini che lasciano le coste del Nord Africa per affrontare una traversata piena di pericoli con il sogno di una vita migliore. In quella prima tappa nel Mediterraneo, papa Francesco ha affrontato il grave problema dell’immigrazione, ha reclamato giustizia e rispetto dei diritti fondamentali per tutti. Ha chiesto inflessibile severità contro coloro che mettono a rischio la vita di quanti si stipano su barche e gommoni per cercare di raggiungere l’Europa. Nell’omelia ha espresso anche un severo monito contro le guerre che mettono in fuga le popolazioni costringendole a emigrare e una dura condanna della “globalizzazione dell’indifferenza” di fronte a tante morti in mare.

La seconda simbolica tappa di Bergoglio nel Mediterraneo è stata il 7 settembre 2013, quando il pontefice ha organizzato in piazza san Pietro una lunga veglia di preghiera per la pace, per scongiurare l’intervento americano in Siria. Ancora una volta il papa ha utilizzato la preghiera come strumento diplomatico privilegiato in seno alla comunità internazionale. Non è la prima volta che i papi affidano alla preghiera la risoluzione dei conflitti, fin dai tempi dell’appello di Benedetto XV per fermare “l’inutile strage” della prima guerra mondiale: ma per Bergoglio il richiamo alla preghiera diventa quasi una sintesi di tutta la sua azione diplomatica, non un di più da affiancare ai negoziati dei mediatori. E, accanto alla preghiera, c’è la sua grande preoccupazione per le vittime innocenti delle guerre. Perciò ripropone continuamente e a tutti i livelli la necessità del rispetto del diritto umanitario come priorità dell’agenda internazionale. Tutela del diritto umanitario significa anche attenzione peculiare alla sorte di rifugiati, profughi e richiedenti asilo che sono davvero nel “cuore” del papa.

La terza tappa del pontefice nel Mediterraneo è stata il “pellegrinaggio” in Terra Santa sulle orme di Paolo VI, dal 24 al 26 maggio. Un viaggio breve ma intensissimo durante il quale il papa e la Santa Sede non hanno di fatto modificato la loro posizione diplomatica che rimane quella di sempre: riconoscimento del diritto a due popoli e due stati (Israele e Palestina), difesa dei cristiani in Medio Oriente, condanna del terrorismo, richiesta di uno status speciale per la città di Gerusalemme. Ma se la posizione ufficiale resta immutata, quello che, secondo papa Francesco, deve cambiare, è lo stile con il quale si affrontano i problemi. Un tratto contrassegnato dalla semplicità e dal rispetto, dall’apertura al dialogo senza preclusioni, da una sana capacità di ascolto delle ragioni dell’altro.

Da questo stile e da questo atteggiamento convinto è scaturita la storica proposta di Bergoglio di invitare a “casa sua”, cioè in Vaticano, il presidente israeliano Shimon Peres (prima dell’elezione di Reuven Rivlin) e quello palestinese, Abu Mazen, con la presenza del patriarca ortodosso di Costantinopoli Bartolomeo I. Il pontefice, così come il suo principale consigliere, il segretario di Stato cardinale Pietro Parolin e il custode di Terra Santa, padre Pierbattista Pizzaballa (che lo ha aiutato a preparare l’incontro), avevano ben presenti i limiti di questa iniziativa. A cominciare anzitutto dagli interlocutori prescelti: Peres, giunto ormai a pochi giorni dal termine del suo mandato come presidente, e Abu Mazen alle prese con un governo di unità nazionale di Fatah e Hamas che ha fatto irritare gli israeliani ed è pieno di incognite per il futuro. Senza dimenticare che il dialogo tra Abu Mazen e il premier israeliano Benjamin Netanyahu (vero “convitato di pietra” della preghiera in Vaticano) è interrotto: pesano i tremila nuovi insediamenti israeliani in Cisgiordania e a Gerusalemme Est intesi come risposta all’ingresso di Hamas nel governo palestinese. Si parla di possibili negoziati segreti tra le parti ma la realtà è che ci si trova in una situazione di stallo.

“La Chiesa deve sorprendere e scompigliare” ha detto il pontefice il giorno di Pentecoste; e così intende fare nel Mediterraneo. Il papa assume così il ruolo di protagonista: non è un caso infatti che la preghiera per la pace non si sia svolta in un luogo “neutro” come in passato era stata la città di Assisi negli incontri mondiali di preghiera per la pace, bensì in Vaticano. Oltre al tema spirituale, il pontefice pone sul tavolo altri due elementi decisivi: il valore della memoria e il ruolo delle Chiese cristiane d’Oriente. Nelle invocazioni per la pace, pronunciate nei giardini Vaticani dai rappresentanti delle tre religioni monoteiste, il tema della memoria è stato centrale. In particolare per i cristiani che hanno chiesto perdono per le persecuzioni e le violenze perpetrate in nome di Gesù ai danni di musulmani ed ebrei. Il pontefice ha voluto indicare così un ricorso “corretto” al bagaglio della memoria. Troppo spesso, secondo Bergoglio, la memoria rischia infatti di essere una trappola che inchioda al passato e impedisce qualsiasi progresso; va invece utilizzata come un tesoro che, alla luce delle sofferenze e dei drammi subiti, aiuta ad andare avanti e voltare pagina. Con la forza del suo carisma papa Francesco introduce così nell’orizzonte diplomatico due dimensioni legate alla fede: la memoria, ma anche il perdono.

Il secondo elemento decisivo è il coinvolgimento delle Chiese cristiane d’Oriente, messo in evidenza dalla presenza del patriarca Bartolomeo. Francesco mette in pratica l’intuizione di Giovanni Paolo II: la Chiesa “respira con due polmoni”, l’Occidente e l’Oriente. Entrambi devono essere anima dell’iniziativa di pace. I nemici del dialogo non potranno più insinuarsi tra le divisioni dei cristiani per ostacolare il cammino della riconciliazione. Anche questa può essere considerata una significativa novità introdotta da Bergoglio, che sempre più viene visto come un candidato naturale al premio Nobel per la pace.