Qualche volta, perfino in diplomazia, la chiarezza aiuta. E quindi conviene essere chiari sulla crisi che sta incendiando i confini orientali dell’Europa. Abbiamo una guerra che ci sembra remota alle porte di casa: la Russia la combatte in modo limitato, negando di farlo. La NATO ha offerto necessarie rassicurazioni a Polonia e Repubbliche Baltiche (il vertice di Newport si è chiuso ribadendo il valore dell’articolo 5, cardine della difesa collettiva), ma non ha alcuna intenzione di intervenire direttamente in Ucraina. E infatti lo esclude: cosa che, sanzioni o non sanzioni, favorisce sul terreno Mosca.
In una situazione del genere, il rischio è che la strana guerra del Donbass finisca per sfuggire di mano. Paradossalmente, la vecchia guerra fredda aveva al centro meccanismi più solidi di deterrenza militare; la situazione di oggi in Ucraina – dove la Russia ritiene di difendere, nei fatti, interessi nazionali vitali e l’Occidente ritiene di difendere, a parole, principi democratici irrinunciabili – è pericolosamente ambigua. Il vertice NATO ha cercato di rimediare, spostando verso Est il baricentro militare dell’Alleanza e creando una forza di intervento rapido. Ma non è chiaro fino a che punto ciò servirà davvero all’Ucraina – oltre che a un’Alleanza occidentale galvanizzata, dopo decenni di “auto-coscienza”, dal ritrovare il suo vecchio nemico.
Perché le decisioni assunte in Galles servano anche all’Ucraina, è decisivo spezzare la spirale di azioni/reazioni. Prendendo atto, anzitutto, di tre punti-chiave. Primo punto: con gli aiuti occidentali previsti, il governo di Kiev non riuscirà comunque ad ottenere una vittoria militare nelle sue province orientali. E i morti, che tendiamo tristemente a rimuovere, sono già alcune migliaia. Secondo punto: Vladimir Putin ha investito un capitale politico tale in Ucraina (ottenendo in cambio grande consenso interno) da non potere contemplare cedimenti totali, neanche in caso di sanzioni dure. Ciò non toglie che la Russia non sia affatto un paese forte e in ascesa; è un paese in difficoltà e in declino demografico, che sta strumentalizzando i miti della storia per risollevare le sorti del moderno Zar. Terzo e decisivo punto: l’elite politica della Russia è d’altra parte consapevole di avere “perso” Kiev, bruciando così l’aspirazione iniziale a portare l’Ucraina nell’Unione euro-asiatica.
In breve, e come ha notato giustamente sul New York Times uno dei migliori storici della Russia, Anatol Lieven, l’alternativa non è a questo punto fra un’Ucraina unita e interamente integrata nella NATO (è uno scenario impossibile) o fra un’Ucraina dimezzata, che ha ormai ceduto – al di là della Crimea – tutta la parte orientale del suo territorio alla Russia (è uno scenario che presupporrebbe altri lunghi mesi di conflitto). Se guardiamo agli sviluppi sul terreno, ai risultati del vertice NATO e alle mosse recenti di Mosca, esistono forse le condizioni per un terzo scenario. Almeno in teoria, infatti, l’armistizio negoziato ieri a Minsk può e deve essere utilizzato (se terrà) per mediare una soluzione politica: una soluzione da negoziare fra Kiev e Mosca, prima che sia troppo tardi per fermare l’escalation di un conflitto non fuori-area, così si diceva una volta, ma precisamente in Europa.
Che soluzione? Entrambe le parti, dopotutto, hanno parlato di forme varie di autonomia, di statuto speciale per la regione del Donbass (il presidente ucraino Petro Poroshenko) o di confederazione (gli strateghi di Putin) all’interno dei confini dell’Ucraina attuale. L’Occidente potrebbe contemplare soluzioni del genere, a condizione del rispetto del principio dell’integrità territoriale dell’Ucraina: non sarebbe né la prima né l’ultima volta, nella politica internazionale, in cui strade del genere vengono tentate. Strade al tempo stesso ambigue (come risultato) ma chiare (come disegno strategico).
È ovvio – non è necessario fare ricorso a Henry Kissinger per sostenerlo – che questo tipo di soluzione comporterà la non adesione dell’Ucraina alla NATO (un’adesione parziale risulterebbe da una spartizione formale); ma permette, anzi imporrebbe io credo, una partnership più solida di Kiev con l’Unione Europea.
Nulla sarà facile, volendo tentare questa strada. La pre-condizione è che la Russia cessi di usare le tattiche dilatorie, il mix di forza e di elusione, utilizzati in questi mesi: Vladimir Putin, anche in virtù della durezza delle sanzioni, dovrà prima o poi chiedersi quanto veramente convenga alla Russia un nuovo conflitto – caldo, non congelato – alle porte di casa. Quanto a noi europei: siamo chiamati ad assumerci responsabilità più dirette e siamo pericolosamente esposti su due fronti. È decisivo che la vecchia/nuova battaglia sull’Ucraina non ci indebolisca a Sud. Per “ritrovare” la NATO e per difendere un Occidente di cui abbiamo estremo bisogno, chiudere il fronte orientale è decisivo ma non sarà sufficiente.
Una versione di questo articolo è stata pubblicata sul quotidiano La Stampa.