Il tour europeo del presidente Obama avviene in un clima che riecheggia il passato, più che annunciare o preparare grandi iniziative future. Le vicende ucraine hanno inevitabilmente concentrato l’attenzione nelle ultime settimane, rimettendo in questione l’intero assetto “eurasiatico” che si pensava fosse in gran parte stabile (o quantomeno “congelato” rispetto ad alcune dispute irrisolte). È chiaro che i connotati dell’azione russa in Crimea hanno ripercussioni sull’ordine mondiale, sebbene sia tuttora da valutare con precisione in quale misura. Il G8 è stato il primo foro internazionale a risentirne direttamente – dando nuova linfa al G7, che sembrava poco più di una reliquia. Ma, se si dovesse procedere sulla strada di un vero isolamento diplomatico di Mosca, andrà verificata anche la tenuta di vari altri fori, a cominciare dal G20.
Diventa senza dubbio più urgente un rilancio della NATO – la cui esigenza era comunque evidente dopo il previsto ritiro dall’Afghanistan – o meglio una discussione sulla sostanza del rapporto di alleanza che ha legato per oltre mezzo secolo le due sponde dell’Atlantico. Non è in discussione la rilevanza potenziale della NATO come sistema integrato di sicurezza, ma la sua capacità di aggregare la volontà politica congiunta dei suoi membri, cioè in ultima analisi la solidarietà tra gli alleati. Ed è esattamente questo requisito che può consentire di sviluppare una seria strategia sul medio-lungo periodo per la sicurezza e lo sviluppo economico dell’Europa “allargata”, impedendo insomma alla Russia di attuare un semplice divide et impera. Del resto, alcuni segnali ci sono: la visita europea di Obama giunge appena pochi giorni dopo una esplicita dichiarazione della maggiore autorità militare dell’Alleanza (il generale Philip Breedlove) relativa alla reale consistenza della minaccia di espansionismo russo anche oltre i (nuovi e contestati) confini della Crimea. L’interdipendenza energetica ed economica tra Russia ed Europa non ha finora condizionato le decisioni di Putin; resta da vedere se e quanto saranno invece condizionate le scelte delle capitali europee.
Le vicende più recenti si combinano poi a un più generale senso di stallo di importanti consessi multilaterali: quello sulla Siria (ormai conclamata tragedia umanitaria di un’entità che ha pochissimi precedenti), ma anche il “5+1” sul dossier nucleare iraniano, che non registra risultati tangibili nonostante un clima migliore rispetto al passato. Peraltro, su entrambi questi tavoli proprio la Russia ha un qualche peso, e dunque pone un dilemma immediato per i prossimi passi negoziali in situazioni già molto complesse.
Intanto, è interessante notare come questioni che apparivano di grandissimo rilievo appena poche settimane fa stanno rapidamente tornando sullo sfondo in una nuova fase di accelerazione degli eventi: è il caso soprattutto della profonda sfiducia reciproca emersa sulla questione delle intercettazioni elettroniche, che potrebbe alla fine restare nei libri di storia come una piccola traccia negativa lungo un vasto percorso comune transatlantico. Le divergenze di opinione non vengono cancellate, ma vengono collocate in una prospettiva ben più ampia; in particolare, potrebbero beneficiarne i negoziati per la TTIP (finora dal passo molto lento e incerto). I rapporti energetici sono il singolo settore in cui è più probabile un significativo riassetto e una più intensa collaborazione euro-americana.
Per gli Stati Uniti, la sfida di oggi è come ridefinire il proprio ruolo internazionale in un modo che sia contemporaneamente sostenibile sul piano del bilancio e del consenso interno, ma anche adeguato a difendere gli interessi globali del paese in un’era certo più multipolare del passato. È giunta l’ora, in altre parole, di distinguere tra retrenchment (probabilmente inevitabile, dopo le due costosissime guerre irachena e afgana) e disengagement (da evitare come una calamità strategica, perché crea dei vuoti che altri tendono a riempire). In termini diversi, questo concetto è stato espresso ad esempio da Michael McFaul (prima consigliere di Obama e poi ambasciatore a Mosca fino a febbraio): il ridimensionamento degli impegni americani nel mondo rischia di diventare una pericolosa deriva, e il “pendolo” del disengagement non può oscillare oltre il limite che si è appena raggiunto. È stato Putin a segnare di fatto quel limite; gli incontri di Obama con i suoi principali partner stanno definendo le forme di un necessario re-engagement. Difficile immaginare che la politica estera di questa amministrazione ne esca stravolta, ma un aggiustamento appare non più procrastinabile, e comunque il dibattito interno agli Stati Uniti – prima con le elezioni di midterm in novembre e poi con la lunga campagna presidenziale verso il 2016 – ne sarà certamente influenzato.
Per gli europei, la sfida è come fornire a Washington una valida e coesa sponda diplomatica, buoni consigli per prendere decisioni migliori, e un contributo operativo di alta qualità (eventualmente anche militare) quando ogni altra via sia preclusa per gestire le maggiori questioni di sicurezza. Vale per l’Ucraina, ma potrà valere allo stesso modo per la Siria o per l’Iran.