L’America di Obama ha avuto la sua nuova versione dell’11 settembre: è l’esplosione della crisi economica. Come nel vero “9/11”, l’evento è cominciato attorno a Wall Street ma ha provocato un sisma internazionale. Come nel 2001, vediamo un presidente americano chiedere agli alleati (vecchi e nuovi) di aiutare l’America a combattere un nemico che in effetti può colpire chiunque.
Naturalmente, ci sono molte differenze, a cominciare dal fatto che questa volta il nemico siamo noi – cioè speculatori, ma anche manager, e perfino consumatori con mutui e acquisti a rate. Siamo tutti un pò responsabili di quanto sta accadendo, quantomeno per complicità. Molti ritengono che siano gli avvoltoi degli hedge funds e i consumatori americani ad aver creato le condizioni per il disastro, con il famigerato eccesso di rischio, di consumo e di indebitamento; ma, ad essere intellettualmente onesti, non possiamo ignorare che gli squilibri sono globali e che è stata infatti la crescita globale a beneficiare a lungo della situazione.
Se proiettiamo questi ragionamenti sul quadro internazionale, è importante che non ci sia neppure stata una fugace espressione di solidarietà del tipo “siamo tutti (consumatori) americani”. E’ un segnale per nulla incoraggiante, per Obama e per noi europei. Ci troviamo, infatti, in piena fase di recriminazioni reciproche. Restando in chiave di analogia con il 2001, siamo forse alla vigilia dell’invasione dell’Iraq (guarda caso, mentre è cominciata una sorta di invasione americana del Pashtunistan, lungo l’inesistente confine afgano-pakistano).
E, un pò come allora, un governo tedesco (nuovamente in clima pre-elettorale) ha deciso di sfruttare l’antiamericanismo soft della sua opinione pubblica come arma politica interna: la Germania non farà di più contro la crisi economica, per adesso, anche perché il primo responsabile è l’America. La virtuosa Europa continentale non accetta diktat dall’impetuoso capo della Casa Bianca, mentre lo avverte (magari in nome dell’antica alleanza) degli errori che sta commettendo. Si tratta per ora di presunti errori di politica economica, ma tra qualche mese potrebbe trattarsi (soprattutto se il surge afgano-pakistano risultasse lungo e sanguinoso) anche di scelte di sicurezza.
Detto ciò, sebbene gli echi siano impressionanti non si può spingere l’analogia troppo oltre. Alcuni attacchi alle scelte di Obama sono prematuri o semplicemente immeritati, visto che non ha certo causato lui il grippaggio dell’economia americana.
Vedremo presto se ha ragione l’editorialista tedesco Malte Lehmig, che sul Wall Street Journal Europe (31 marzo) ha scritto provocatoriamente: “Before the Iraq war, George Bush succeeded in splitting Europe into the ‘old’ and the ‘new’. In the financial crisis, the Continent is unified in its opposition toward his successor, Barack Obama”.
Intanto, uno dei dilemma dell’attuale presidente americano è come mobilitare tutte le energie del suo popolo contro la crisi (e contro i terroristi) senza ricorrere alle tecniche del suo predecessore: la chiamata patriottica alle armi, che spinge quasi inevitabilmente al “con noi o contro di noi”. Le propensioni del team Obama sono molto diverse, ma le emergenze portano spesso a scelte drastiche.
Fin qui i dati negativi o preoccupanti. Sul versante positivo, Obama potrebbe trovarsi – paradossalmente, visto il tono della sua campagna elettorale e le aspettative che l’hanno accompagnato alla Casa Bianca – a sfruttare alcune favorevoli eredità di politica estera lasciategli da G.W. Bush: soprattutto un buon rapporto (condito, ovviamente, di sana prudenza strategica) con la Cina, e un grande potenziale di collaborazione a lungo termine con l’India. Obama, il primo presidente del secolo asiatico, non parte da zero.
In primo luogo, la Cina: essa va inesorabilmente collocata al centro del sistema internazionale del futuro, assieme agli Stati Uniti. E’ vero che potrà subire pesanti ripercussioni, economiche e sociali, se non troverà piuttosto rapidamente il modo di aprire e modernizzare il suo sistema politico; ma in ultima analisi è il paese decisivo per gli assetti globali che ad oggi si possono ragionevolmente prevedere. In tale ottica, non si intravede alcuna differenza profonda tra la linea-Bush e la linea-Obama: il secondo ha ripreso il filo del discorso dove il primo l’aveva lasciato. Con buona pace, come sempre, dei diritti umani e del Tibet, si è varato un serio dialogo economico e strategico nell’incontro Obama-Hu Jintao a Londra.
Quanto all’India, si tratta di un partner importante per la stabilizzazione di un’area vastissima che va dal Pakistan all’Indocina all’Oceano indiano, coinvolgendo i rapporti con la Cina ma anche quelli con l’Iran e gli altri paesi del Golfo Persico. Non guasta il fatto che sia la più popolosa democrazia al mondo, come spesso si ripete distrattamente. Insomma, non un paese qualsiasi, con il quale l’amministrazione repubblicana ha avviato un programma di collaborazione nucleare, cercando di cementare i crescenti legami economici e diplomatici.
Venendo invece alla Russia, l’amministrazione offre l’immagine di un tentativo in corso di “rilanciare” un rapporto che si era drammaticamente deteriorato nel corso del 2008. E’ indubbio che la crisi georgiana abbia fatto da catalizzatore di una serie di frizioni e gravi sospetti reciproci, ma si può anche sostenere che quell’episodio, nel “cortile di casa” russo, abbia riportato il rapporto Washington-Mosca ai suoi livelli naturali dopo le fantastiche aspettative iniziali del duo Bush-Putin. Nella sostanza, l’amministrazione Obama è molto ambivalente – e lo è giustamente – su come trattare con Mosca: più dialogo sulla difesa antimissile (che subisce un rallentamento ma non viene certo abbandonata) e sulla concreta collaborazione per la missione afgana, ma molte incertezze sull’evoluzione del dossier iraniano. Qui, nonostante la sottolineatura del diritto di Teheran al nucleare civile nel primo comunicato congiunto con Medvedev, si deve ricordare che si è sempre tentato di tenere la Russia nel fronte delle sanzioni, con risultati altalenanti. Rimane poi controverso il ruolo complessivo della NATO e i suoi futuri allargamenti. Il settore più promettente è forse quello del controllo degli armamenti, nel quale in effetti l’amministrazione Bush ha sempre mostrato scarso entusiasmo. D’altra parte, ben più dell’abilità negoziale di Obama sembra essere decisivo in tal senso il desiderio russo di contenere le spese superflue per la difesa, alla luce degli effetti gravissimi della crisi globale su un’economia di fatto pre-moderna e semi-industriale. A dispetto degli annunci di Medvedev sull’aumento del bilancio della difesa, la Russia avrà infatti molti altri problemi a cui pensare.
A proposito di interessi sostanziali e retorica, tornando alla difesa antimissile è anche opportuno notare che la decisione americana di rafforzare le difese antimissile in Asia nordorientale assieme al Giappone (a seguito delle ultime provocazioni nordcoreane) non ha prodotto alcuna seria protesta da parte di Mosca. Evidentemente, alcuni sistemi antimissile sono più uguali degli altri.
Nel valutare continuità e discontinuità di questa presidenza americana, il capitolo che potrebbe rivelarsi più sorprendente è l’Iraq: la “guerra sbagliata”, che Bush ha pagato carissima in tutti i sensi, sta producendo uno strano paese nel cuore del Medio Oriente, che contiene in effetti qualche germe di positivo cambiamento. Una circostanza notoriamente rara in quella regione. Così, al momento delle prossime elezioni presidenziali americane (quando Obama comincerà a fare i conti con la storia) l’Iraq potrebbe avere il sistema politico più democratico dell’intero mondo arabo, e naturalmente molte risorse naturali da sfruttare. Chissà che non diventi il perno di una trasformazione regionale più ampia – certo ben più graduale, pragmatica e indiretta di quella promossa dai Neoconservatori, ma magari più radicata in un’esperienza locale. Non è opportuno cedere a facili entusiasmi, vista la fragilità degli equilibri interni al paese, ma questo esito non è ora inconcepibile. E in ogni caso l’amministrazione Obama ha tutto l’interesse a fare del nuovo Iraq un sistema politico dignitosamente funzionante, se non altro alla luce di un obiettivo decisivo per Washington: il contenimento-engagement dell’Iran.
L’altra ironia della storia è naturalmente l’attuale applicazione all’Afghanistan di molte delle esperienze di stabilizzazione e parziale state building che sono state sperimentate proprio in Iraq. Una delle numerose eredità di G.W. Bush che Obama, volente o nolente, deve sfruttare al meglio.