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Obama e il ruolo dell’intelligence: nulla di nuovo sotto il sole

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Nell’atteso discorso del 17 gennaio sulla riforma delle agenzie di intelligence (pronunciato al dipartimento della Giustizia), Barack Obama ha affrontato uno dei temi più spinosi e complessi degli ultimi anni: il confine tra sicurezza nazionale e privacy. La raccolta di dati e lo spionaggio sono attività che per loro natura connettono la sicurezza interna (homeland security, nella terminologia post-2001) e la politica estera. Connettono inoltre i diritti fondamentali dei cittadini americani e il rapporto con paesi alleati ed entità non governative di vario tipo – compresi i gruppi terroristici. Si tratta di un vero terreno minato soprattutto per questo presidente, data la sua collocazione lungo lo spettro culturale-ideologico riguardo al rapporto tra governo federale e cittadini. Essendosi infatti sempre presentato come fautore di un governo forte e interventista (big government, direbbero i suoi critici conservatori), egli può affermare coerentemente che lo Stato ha il dovere, oltre che il potere, di usare tutti gli strumenti a sua disposizione per garantire la sicurezza dei cittadini; ma, come paladino dei diritti civili, Obama deve comunque sottolineare le necessarie tutele della privacy e l’applicazione uniforme della legge a tutti gli organi federali (anche a quelli che lavorano nell’ombra della segretezza).

Come era inevitabile, il presidente ha cercato un delicato punto di equilibrio, prendendo il rischio calcolato di scontentare le fazioni più estreme di entrambi gli schieramenti politici americani. Ha così ricordato che la ragion d’essere dell’intelligence è proprio ottenere informazioni che non sono pubblicamente disponibili – in altre parole, che lo spionaggio è spionaggio…Ha però anche rimarcato che la migliore tradizione costituzionale americana è quella del limited government, aggiungendo che il governo non è certo l’unica entità a minacciare la privacy, visto che compagnie e altri attori privati (talvolta singoli individui) fanno ampio uso di tecniche di tracking e registrazione di dati per ragioni commerciali e in alcuni casi criminali.

Obama ha poi operato una distinzione tra spionaggio nei confronti di stati ostili o individui che siano già sospettati di intenti ostili, da un lato, e intercettazioni a tappeto e indiscriminate, dall’altro.

In ultima analisi, il discorso ha comunque difeso complessivamente l’operato della comunità dell’intelligence americana, ribadendo che non vi sono stati tentativi sistematici di violare deliberatamente la legge, ma semmai abusi isolati dovuti a eccesso di zelo o a questioni tecniche che dunque sono passibili di rimedi anch’essi tecnici. Il messaggio più forte e netto è stato che gli Stati Uniti non possono “disarmare unilateralmente” le proprie agenzie di intelligence: il compito ineludibile di difendere i cittadini americani dipende dalle capacità di ottenere informazioni che siano al passo con i tempi, cioè con un mondo in cui la massa di dati digitali è cresciuta in modo esponenziale e continua a crescere.

Un’interessante considerazione politica e strategica del presidente è stata quella sui rapporti tra Washington e altri governi, a cominciare da quelli alleati: a suo parere, tutti si aspettano (e molti auspicano) che gli Stati Uniti abbiano un ruolo di leadership nel campo della raccolta e analisi dei dati, che sia coerente con il peso internazionale del paese soprattutto sul piano della sicurezza. In altri termini, si suggerisce che le capacità di intelligence americane sono, e devono restare, in una categoria a sé per potenza e penetrazione, esattamente come le capacità militari. Per essere ancora più chiaro, Obama ha precisato che non intende presentare le sue scuse per il fatto che lo spionaggio americano è più efficiente di quello di altri paesi – un riferimento quasi diretto alle molte critiche giunte soprattutto da alcuni governi europei. Risultano dunque una concessione davvero modesta le ulteriori rassicurazioni, già offerte del resto negli ultimi mesi, sull’impegno di Washington a non intercettare le comunicazioni dei leader di governi amici: pur partendo da quel presupposto, resta infatti una vasta area grigia ai livelli intermedi delle strutture governative.

Le specifiche proposte menzionate dal presidente per delimitare le possibilità del governo federale di conservare dati generici (cioè non raccolti in modo selettivo) su privati cittadini sono preliminari e certo non rivoluzionarie, coinvolgendo sia la responsabilità del Congresso come supervisore e naturale controparte della Casa Bianca, sia vari meccanismi di controllo a livelli più bassi.

Nel complesso, è apparso chiaro dall’intervento di Obama che non siamo di fronte a scelte secche – bianche o nere, pro o contro i presunti abusi delle agenzie di intelligence – ma invece a un permanente trade off in cui l’Esecutivo tenderà sempre a impiegare tutti gli strumenti che siano tollerabili per l’opinione pubblica. Il limite della tolleranza è fissato da rivelazioni come quelle del caso Snowden, esploso nella primavera del 2013: solo a quel punto le autorità non possono davvero esimersi dal verificare se vi siano stati gravi abusi.

Il presidente ha fatto riferimento esplicito per la prima volta a Edward Snowden proprio nel discorso del 17 gennaio, a riprova del fatto che il problema è emerso perché il velo è stato sollevato, almeno temporaneamente; accadrà ancora in futuro, e non saranno certo le nuove misure annunciate da Obama a superare la contraddizione tra segretezza e democrazia.