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Nuova e vecchia Serbia

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“Il cammino della Serbia verso l’integrazione europea sarà lungo e incerto”, le parole del nuovo presidente serbo, il nazionalista Tomislav Nikolić che ha vinto al secondo turno il 20 maggio, riassumono la difficile situazione geopolitica in cui si trova il paese balcanico. Tra le entità politiche che hanno preso vita dallo smembramento della ex Yugoslavia, la Serbia è buona ultima nel processo di avvicinamento all’UE. Il risultato elettorale complica ulteriormente i rapporti con Bruxelles, strettamente legati alla questione dell’indipendenza del Kosovo, e riavvicina la Serbia a uno dei suoi tradizionali punti di riferimento: la Russia di Vladimir Putin.

Nikolić si è imposto di misura (51,2%) su Boris Tadić, presidente uscente in carica da otto anni. I due sono i protagonisti indiscussi della scena politica serba dell’ultimo decennio, rispettivamente del campo nazionalista-conservatore e del fronte progressista filoeuropeo: quella conclusasi con il ballottaggio del 20 maggio è la terza campagna presidenziale che li vede opposti. Anche per questo l’affluenza al voto è stata particolarmente bassa: meno della metà della popolazione (46%) si è recata alle urne – si tratta comunque di una percentuale non del tutto insolita in quest’area geografica, ma è ben il 12% in meno rispetto al primo turno, quando si votava anche per le elezioni parlamentari e amministrative, e il 22% in meno sul ballottaggio di quattro anni fa.

L’astensionismo ha certamente punito in misura maggiore Tadić, nonostante le previsioni della vigilia. L’esito del voto serbo è in parte frutto di una tendenza in atto in molti paesi europei: la durezza della crisi economica erode il consenso dei governi in carica e innesca una profonda crisi di sfiducia nella cittadinanza. Il tasso di disoccupazione supera ormai il 24%, e le prospettive non sono rosee: in gennaio la US Steel ha rivenduto il mega-complesso metallurgico di Smederevo (che produceva il 14% delle esportazioni del paese) allo stato per un dollaro.

Questa situazione ha pesato di più, nella scelta degli elettori, rispetto ai progressi compiuti dal paese in politica estera: la Serbia infatti aveva ottenuto in marzo lo status ufficiale di candidata all’ingresso nell’Unione Europea – una delle promesse di Boris Tadić all’inizio del suo mandato. L’intenso lavoro diplomatico con Berlino e Parigi ha prodotto questo risultato in cambio sia di un atteggiamento meno intransigente da parte di Belgrado sulla questione kosovara, sia della consegna di un criminale di guerra come Ratko Mladić al tribunale dell’Aja.

La crisi di sfiducia ha disperso il voto dei serbi, tanto che le principali forze politiche sono ben lontane dall’avere una maggioranza assoluta in parlamento: il Partito Democratico (DS) di Tadić, presentatosi sotto lo slogan Scelta per una vita migliore, ha perso un terzo dei suoi voti. Allo stesso tempo, Nikolić non è riuscito ad attrarre tutti gli elettori dell’ultranazionalista Partito Radicale, di cui era leader, sulla nuova organizzazione da lui creata quattro anni fa, il Partito Progressista serbo (SPS), che si ferma al 25% rispetto al 40 ottenuto dai radicali nel 2008.

Tra i partiti, è netto l’avanzamento dei socialisti, che passano dal 6 al 14%. Il partito che fu di Slobodan Milošević è oggi guidato da Ivica Dačić, che è stato portavoce del dittatore e ministro dell’Interno: attualmente è in realtà l’ago della bilancia degli equilibri parlamentari. È infatti molto difficile che si formi una maggioranza sufficiente a sostenere un’eventuale governo guidato dall’SPS: il compito sarà con tutta probabilità affidato al DS, che grazie ai voti socialisti, suoi alleati, e a quelli di altre forze di centrosinistra potrebbe dare vita a un esecutivo di colore diverso da quello del capo dello stato.

La coabitazione smusserebbe senz’altro la svolta rappresentata dall’arrivo di Nikolić alla presidenza. Lo sconfitto Tadić poteva contare su buoni appoggi in Europa occidentale: era considerato garante di un’ulteriore distensione dei rapporti tra Serbia e Kosovo – l’indipendenza dell’ex provincia meridionale è protetta da una missione dell’Unione Europea, sebbene non accettata da tutti i paesi membri; il riconoscimento da parte di Belgrado è conditio sine qua non per l’ingresso della Serbia nell’UE. Inoltre, l’ex presidente incoraggiava l’aggancio del sistema produttivo serbo a quello dello spazio economico europeo, facilitando un consistente flusso di investimenti proveniente soprattutto da Germania e Italia. Esattamente un mese prima delle elezioni, l’amministratore delegato della Fiat Sergio Marchionne e l’ex primo ministro Mirko Cvetković inauguravano un grande stabilimento industriale su cui la Fiat garantisce un investimento pari a 700 milioni di euro in joint venture con lo stato.

Al contrario, durante la campagna elettorale, Tomislav Nikolić ha goduto del sostegno diretto di Vladimir Putin, uomo politico di cui si dichiara “ammiratore”. Il nuovo presidente ha compiuto la prima visita di stato proprio in Russia: risultato dell’incontro è un piano di investimenti in infrastrutture del valore di 800 milioni che Putin si impegna ad avviare per rafforzare gli storici legami culturali ed economici tra i due paesi “fratelli spirituali” – nonostante questa fratellanza, la Russia investì in Serbia, in tutto il quadriennio precedente, una somma pari solo a un quarto di quella stabilita oggi.

Ma non è solo in termini economici che Serbia e Russia sono ora più vicine. Il paese guidato da Putin è uno dei due membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’ONU (insieme alla Cina) che non riconosce l’indipendenza del Kosovo, e impedisce una presa di posizione netta delle Nazioni Unite sulla questione. Nikolić, che ha vinto sull’onda della delusione per l’ultimo quadriennio di Tadić (suo lo slogan: facciamo muovere la Serbia) e grazie a una campagna anti-casta che gli ha attirato le simpatie della Serbia più rurale e profonda, raccoglie anche il consenso di molti nazionalisti intransigenti. Nonostante la svolta europeista e la fondazione del nuovo partito, auspicata quando non apertamente incoraggiata da Bruxelles e Berlino, il suo passato pesa molto in una regione in cui i drammi della guerra sono recentissimi e le dispute etniche e di frontiera sono considerate tutt’altro che chiuse.

In occasione della nascita del Partito Radicale (1991), Nikolić si guadagnò dall’allora leader e capo militare Vojislav Šešelj (oggi sotto processo all’Aja per crimini come sterminio e persecuzioni razziali) l’appellativo di duce dei cetnici – una delle organizzazioni paramilitari tristemente protagoniste delle ultime guerre balcaniche, che voleva richiamarsi all’esperienza del famigerato gruppo militare di estrema destra attivo durante la seconda guerra mondiale. L’attuale presidente serbo rimase numero due del partito fino alla scissione da lui condotta nel 2008 – oggi i radicali sono guidati da Jadranka, la moglie del vecchio leader, e sono fuori dal parlamento. Ancora nel 2007, Nikolić, in un discorso parlamentare, auspicava la nascita di un superstato composto da Russia, Bielorussia e Serbia, in opposizione agli interessi euroamericani, e la ricostituzione della Grande Serbia grazie all’annessione di territori oggi appartenenti a Croazia, Bosnia e Erzegovina, Montenegro e Kosovo.

“Solo gli stupidi non cambiano idea”, dichiara oggi il presidente neoeletto. È certo che la Serbia non volterà le spalle all’Unione Europea (non fosse altro che per l’estremo bisogno di investimenti esteri che ha il paese). Ma la strada per Bruxelles si fa più impervia. La vittoria di Nikolić non è avvenuta grazie a un ritorno di fiamma del nazionalismo; ma la ricomparsa della Russia come attore principale della politica regionale a sostegno di un leader dalla storia tanto controversa, e lo scontento diffuso che deriva dalla perdurante grave crisi economica, potrebbero compromettere i progressi diplomatici e la distensione raggiunti negli ultimi anni.