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Notizie false in rete: come difendersi con intelligenza

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“Le narrative false svolgono una funzione sociale, perché riducono la complessità di certi fenomeni del reale, contengono l’incertezza e traducono un’ansia vaga in paure precise”. Così Martin Bauer, psicologo sociale (in un articolo del 2013 sulla rivista Frontiers in Psychology) cercava di spiegare il ruolo delle “bufale” nelle società contemporanee, assegnando loro una valenza quasi positiva. Quando, però, quelle che una volta chiamavano leggende metropolitane sono passate al mondo digitale, facendo proprie tutte le caratteristiche della rete – velocità, pervasività e diffusione capillare – gli effetti si sono rivelati devastanti. Ne è un esempio la diminuzione delle vaccinazioni obbligatorie per i bambini entro i due anni, causata anche dalla diffusione online di affermazioni prive di evidenze scientifiche, che legano all’autismo il vaccino trivalente. Il risultato è che in Italia le coperture nazionali nel 2013 hanno raggiunto il livello più basso degli ultimi dieci anni, secondo i dati del Ministero della Salute. Il fenomeno non è certo solo italiano: negli Stati Uniti il numero di casi di morbillo ha raggiunto nel 2014 il record di 644 e, nel gennaio 2015, di 102 in 14 stati, secondo il Center for Disease Control and Prevention: il massimo, da quando la malattia era stata dichiarata sconfitta negli USA, nel 2000.

La Corte d’Appello di Bologna lo scorso marzo ha capovolto una sentenza del 2012, un pilastro per le cause civili avviate da famiglie con bambini con diagnosi di autismo, affermando che non c’è alcuna causalità fra la malattia e il vaccino trivalente, solo un nesso temporale: la diagnosi viene fatta dopo il vaccino. Vedremo, adesso, se questa operazione di debunking (smascherare affermazioni false sulla base di prove scientifiche) avrà effetto, se riuscirà a smontare convinzioni che di scientifico hanno poco o nulla. Stando a uno studio del laboratorio di Computational Social Science dell’Istituto Imt Alti Studi Lucca, coordinato dal Professor Walter Quattrociocchi – Social determinants of content selection in the age of mis(information) – ciò non accadrà. Coloro che nutrono la propria fame di informazioni con un menu a base di bufale, spacciate da siti internet inaffidabili e pagine Facebook fake, e che su quei contenuti basano le proprie scelte, non si fanno “fuorviare” dalle evidenze scientifiche: si tratta dei cosiddetti utenti “polarizzati” (cioè coloro che hanno almeno il 95% di like su una determinata categoria di pagine).

Per questo tipo di utente, il debunking non solo viene quasi ignorato, ma paradossalmente funziona da rinforzo: più l’utente consuma informazioni non verificate, più i post satirici, o che tendono a smontarle, incrementano la probabilità di continuare a fruire di quei contenuti. “Sul caso italiano abbiamo visto un rinforzo che cresceva al crescere dell’engagement (coinvolgimento) dell’utente su pagine di ‘teorie del complotto’: per gli utenti con engagement più alto c’era un rinforzo del 20% circa”, spiega Alessandro Bessi, co-autore della ricerca.

Ciò è vero almeno nell’ingente campione preso in esame dai ricercatori, cioè il social network di Mark Zuckerberg: 1,2 milioni di account italiani, oltre 300.000 post, 40 pagine scientifiche e altrettante di notizie false o non verificate.

Per fare un solo esempio tra tanti, ha avuto 53.000 condivisioni un post della pagina Facebook “Simply Humans”, che riportava falsi effetti curativi del limone: dalle “proprietà anticancro” alle “proprietà anti-ipnotiche”, dalla capacità di “curare la psoriasi” a quella di “dissolvere i metalli pesanti”.

Un ottimo aiuto per orientarsi nel mare delle informazioni online arriva da Emergent.info, un sito fondato da Craig Silverman, membro di Tow Center for Digital Journalism di Columbia University. Emergent si pone come obiettivo “sviluppare le migliori modalità per smascherare la disinformazione”, verificando in tempo reale i rumors, analizzando come si diffondono e in che modo vengono riportati dai media. Dinamiche spiegate del ricercatore e giornalista nel rapporto elaborato lo scorso febbraio per Tow Center: un’affermazione, approdata ai social media o in qualche altro sito, viene ripresa da una o più testate online, qualcuna la condisce con un titolo che lascia intendere che sia vera – per incoraggiarne la condivisione e le visite – mentre altri usano formule più caute, per esempio “come riferito”. Una volta che la “notizia” ha ricevuto il “timbro” della credibilità da parte della stampa, è pronta perché altri siti la riprendano, linkando ai primi. Spesso è difficile risalire alla fonte originale, che rimane nascosta dalla rete intricata di articoli fra loro collegati. Una delle conclusioni cui arriva Silverman è che i giornalisti si muovono troppo velocemente dal rumor alla diffusione della notizia; soprattutto, i siti di news dedicano molte più risorse e tempo a diffondere dubbie o false affermazioni di quanto non facciano per verificare o smontare contenuti virali e online rumors.

Alla luce di queste analisi – e dell’esperienza quotidiana che molti fanno in rete – non c’è una procedura solida ed efficace di debunking; intanto, la necessità di ottenere traffico e social engagement fa in modo che le falsità, talvolta, si diffondano più velocemente della verità. Probabilmente un maggior senso di responsabilità, sia da parte di chi legge, sia di chi fa informazione, potrebbe fare la differenza. Da un lato, gli utenti dei social network dovrebbero acquisire piena consapevolezza del potere che il proprio “io digitale” ha assunto, nel diffondere contenuti in ogni angolo della rete: spesso link, notizie e immagini vengono condivisi sotto la spinta di un impulso emozionale, prima ancora che ne venga esplorato il contenuto e senza tener conto della fonte. Dall’altro lato, in un momento in cui ciascuno può aprire il proprio personal media (un blog, un account Twitter, una pagina su Facebook…) e riempirlo praticamente di qualsiasi contenuto, il ruolo dei professionisti dell’informazione è diventato cruciale – in modo diverso, ma perfino più che in passato. Dunque, sta in primis alle testate giornalistiche consolidate, e a quelle che aspirano a diventarlo, il compito di non inseguire i click a discapito della qualità, di effettuare le opportune verifiche e di attuare una scrupolosa selezione di fonti e notizie, tentando al meglio possibile di dare gli strumenti ai lettori per decodificare realtà che non potranno vedere con i loro occhi.