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Non solo business: la Cina in Medio Oriente

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Durante il China-MENA Forum tenutosi a Dubai nell’aprile del 2012, il ministro dell’Istruzione superiore e della ricerca scientifica degli Emirati Arabi Uniti, Shaykh Nahyan Mubarak Al Nahyan, ha affermato che i rapporti tra la Cina ed i paesi della regione del Mediterraneo e Medio Oriente sono destinati a svilupparsi, data la presenza di forti interessi convergenti. Il rapporto che la Cina sta coltivando con i paesi MENA (Middle East and North Africa) si basa sulla velocità di crescita dell’economia cinese, che rischia però di essere penalizzata dalla differenza tra la domanda e l’offerta interna nel settore dell’approvvigionamento energetico (gas, petrolio e altre risorse naturali). Da parte loro, i paesi arabi trovano naturalmente conveniente acquistare i prodotti di consumo cinesi: tra questi anche macchinari e tecnologie, fattori indispensabili per innescare strategie locali di sviluppo.

L’interesse cinese per il mondo arabo-islamico è trainato in realtà da due obiettivi: la possibilità di avere accesso alle risorse naturali destinate a soddisfare il consumo interno, ma anche l’acquisizione di nuovi mercati. La Cina ha già superato gli Stati Uniti per il consumo di petrolio e, secondo le stime più aggiornate, il suo fabbisogno ammonta a 6,2 milioni di bpd (barrels per day) mentre la produzione cinese è assorbita dal consumo interno e in parte dall’esportazione.

L’interscambio commerciale tra la Cina e i paesi MENA (incluso l’Iran) è cresciuto a ritmi elevati cioè del 37% tra il 2003 ed il 2007 e del 21% tra il 2007 ed il 2011, raggiungendo un picco massimo di 263 miliardi di dollari. L’area del Golfo è particolarmente importante in questo quadro: attualmente, la Cina importa il 35% del petrolio di cui ha bisogno dai paesi del GCC mentre i soli Emirati Arabi Uniti assorbono circa il 40% dei prodotti cinesi destinati ai paesi MENA, per un valore di 32 miliardi di dollari annui. Entro il 2015, si stima che i due paesi, da soli, scambieranno beni e servizi per quasi 100 miliardi di dollari. Inoltre, sulla scia della progressiva convergenza tra la Cina e l’area del Golfo, Dubai potrebbe diventare il centro offshore di scambio della moneta cinese. Gli Emirati fungono anche da hub per le esportazioni dirette negli altri paesi, soprattutto verso Iran, Arabia Saudita e Nord Africa.

Anche sul versante degli investimenti diretti esteri, l’appetito cinese verso la regione è in crescita. I paesi MENA si trovano al secondo posto, dopo i paesi dell’Asia centro-orientale, per quantità di investimenti diretti provenienti dalla Cina: dal 2007 al 2010 questa cifra è passata da 5 a 13 miliardi di dollari. I maggiori beneficiari di questo flusso sono i paesi che possiedono risorse energetiche, in primis Iran e Algeria. Con Egitto e Siria, Pechino ha creato free trade zones mentre con gli Emirati, la Banca Cinese del Popolo ha stabilito tassi di cambio dello yuan molto favorevoli.

L’Egitto rappresenta un paese chiave per Pechino anche in virtù del passaggio delle navi cargo cinesi attraverso il canale di Suez; ad oggi, si calcola che soltanto il 60% dei trasporti fluviali cinesi transita per il Mar Rosso, mentre la restante parte raggiunge i principali porti europei, come Rotterdam, circumnavigando l’Africa. Dal momento che questa una rotta è molto più dispendiosa in termini di tempo e di costi, migliorare i rapporti con il Cairo potrebbe aprire opportunità vantaggiose riguardo al transito dei cargo cinesi per la rotta più breve. 

Nel complesso, nella regione la Cina è percepita come un modello di rapido sviluppo economico, in grado di ridurre il livello di povertà medio; inoltre, a differenza dell’Europa, non risente del pesante retaggio coloniale. I paesi della regione stanno così cercando di cogliere l’opportunità, sviluppando una strategia di diversificazione. Ad esempio, i paesi del GCC, dinanzi alle grandi potenzialità offerte dal rapporto con la Cina, stanno ampliando alcuni settori delle rispettive economie, in modo da ridurre la totale dipendenza dal mercato energetico. Soprattutto il settore dei servizi finanziari ha beneficiato di questo processo, attraverso il Dubai International Financial Centre polo di primo piano per l’attrazione degli investimenti. Il caso dell’Algeria è ancora più evidente, dato che l’economia di questo paese dipende per il 95% dall’esportazione del petrolio: attraverso la China Petroleum Engineering & Construction Corporation, controllata dallo Stato, Pechino ha avviato in Algeria la costruzione di un grande polo commerciale e di un’autostrada di 1.200 km che, attraversando il paese da ovest ad est, collega anche il Marocco e la Tunisia.

Nella prospettiva cinese, questa strategia di penetrazione nell’area MENA è, almeno ufficialmente, legata alla teoria dei “Tre Mondi” sviluppata da Mao Zedong, secondo la quale il globo è suddiviso, sia economicamente sia politicamente, in tre macro-zone: il primo mondo che comprende le super-potenze; il secondo mondo che include gli alleati delle super-potenze; il terzo mondo rappresentato dai paesi non allineati, come la Cina e l’intero continente africano. Con gli adeguamenti necessari ad aggiornare questa strategia al contesto del XXI secolo, è chiaro comunque come la penetrazione cinese non sia soltanto di natura economica, ma contiene anche una forte connotazione politica. È così che può leggersi il lancio, nel 2000, del Forum per la cooperazione Cina-Africa, che da allora si è tenuto ogni due anni, alternativamente in Cina e in un paese africano.

Oltre a garantire evidenti benefici economici reciproci, il rapporto strategico tra la Cina e l’area MENA rappresenta uno dei modi tramite i quali Pechino sfida indirettamente l’influenza occidentale nella regione. La relocation strategy, cioè la tendenza a creare impianti industriali e servizi di collegamento nell’area MENA, da un lato affranca la Cina dal pericolo di crisi di sovrapproduzione e, dall’altro agevola anche i paesi destinatari che possono così attenuare la dipendenza dalle importazioni, producendo sul proprio territorio una crescente quantità di beni. La partnership strategica fa quindi leva sui vantaggi comparati per scambiare beni energy-intensive con beni labor-intensive.

Tuttavia, la spirale innescata da questo interscambio può produrre alcuni effetti pericolosi. La necessità di garantire un costante approvvigionamento energetico rischia di sfuggire al controllo cinese, data l’alta volatilità della politica di sicurezza in cui versa la regione, con frequenti episodi di malcontento e tensioni sociali che potrebbero volgersi anche contro una presenza a volte ingombrante come quella cinese.

Inoltre, se da un lato la partnership strategica sembra favorire la diversificazione economica, dall’altro per paesi come l’Algeria o i membri del GCC, l’imperativo è proprio mantenere la stabilità politica, cioè l’immobilismo sul piano della democratizzazione. In questo modo, la crescente influenza cinese – presentata come una peaceful rise, dovuta alla combinazione di sviluppo economico e collaborazione con alcuni partner internazionali – va a svantaggio dei processi di liberalizzazione e di apertura politica che alcuni paesi MENA stanno, almeno ufficialmente, perseguendo.        

La tendenziale deriva multipolare del sistema internazionale senza dubbio aumenta il grado di competitività dei mercati internazionali, e dunque offre grandi opportunità alla Cina. La sua rapida ascesa economico-finanziaria cinese potrebbe spingerla ad abbandonare la strategia di sviluppo “silenzioso”, adottata fino ad ora. A tal fine, però, è anche necessario che, rispetto all’area MENA, la Cina accetti le maggiori responsabilità che derivano dal suo ruolo di notevole influenza. La posizione che Pechino ha assunto in merito alla crisi siriana, e le pressioni che la diplomazia internazionale sta esercitando sulla Cina in senso al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, è probabilmente un’anticipazione di questo processo.