international analysis and commentary

Nebbia sull’Hindukush

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Visto da Kabul, l’atteso pronunciamento di Obama, il 1° dicembre, sull’invio di nuove truppe nel teatro afgano è sembrato soprattutto un esercizio di matematica. Questa, almeno a cogliere le prime reazioni, appariva la sensazione nelle strade di una capitale accerchiata e in stato d’assedio. Ma anche in parlamento, dove alcuni deputati non allineati con il riconfermato presidente Karzai si sono chiesti se risiedesse nella crescita dell’apparato militare occidentale la soluzione del problema.

I fatti sono noti: diversi mesi fa Barack Obama ha affidato al  generale Stanley McChrystal l’incarico di compiere un’indagine approfondita sulla situazione e di proporre una soluzione. McChrystal, nominato in primavera non solo comandante delle truppe Isaf/Nato (circa 71.000 uomini di cui 34.800 americani),  ma anche responsabile delle truppe statunitensi nell’area, è un uomo pragmatico e di esperienza. Nel cumulare le due cariche, ha in parte  risolto indirettamente uno dei maggiori problemi della presenza militare occidentale (termine improprio visto che anche paesi asiatici ne fanno parte) in Afghanistan: la complessa e controversa coesistenza di due missioni militari con diverso mandato e composizione Isaf/Nato e Operation Enduring Freedom, infatti, si sono distinte per la quasi totale mancanza di coordinamento e per aver creato più di una confusione sui ruoli e soprattutto sulle responsabilità, specie nel caso di vittime civili.

McChrystal indica nella mancanza di adeguata sicurezza per gli afgani la causa principale della diminuzione del consenso locale e propone  una nuova strategia militare per contenere – più che per vincere, si potrebbe dire – i talebani: rinsaldare le posizioni dove la Nato controlla già il territorio, abbandonando le zone più difficili da garantire permanentemente; rafforzare l’esercito (Ana) e la polizia nazionali, portandoli in tempi rapidi ad una accresciuta  capacità operativa e  numerica (si è detto sino a 400.000 unità); aumentare infine di almeno  40.000 uomini il contingente americano in Afghanistan chiedendo nel contempo uno sforzo ai partner europei nelle stessa direzione.

Pur contenendo la già famosa relazione di McChrystal diversi elementi “politici”, non spettava a un generale entrare nel merito della cosiddetta “opzione civile”, la primigenia idea di Obama per capovolgere, dopo otto anni, la strategia nell’area afgano-pachistana. Ma la risposta del presidente americano ha dato l’impressione di essere soprattutto il frutto di una trattativa interna tra i fautori dell’opzione militare e quelli (come in origine Obama stesso) più propensi a rafforzare l’azione politico-diplomatica. L’opzione “civile” – di cui nel discorso del presidente del 1° dicembre si ritrova una sola flebile traccia –  gode infatti di scarsi appoggi. Inoltre, l’inviato speciale per la regione,  Richard Holbrooke, non gode più di ottima stampa dopo i risultati farseschi  delle elezioni presidenziali e l’ondivaga posizione dell’Amministrazione (Karzai no, forse si, però…). La strategia diplomatica – di cui proprio le presidenziali avrebbero dovuto segnare un nuovo avvio – ha mostrato la corda e  tagliato le ali a quanti pensavano a una svolta, e a tempi brevissimi per la “transizione” e dunque per un vero trasferimento del potere (civile e militare) a un governo afgano rinnovato e legittimo, affidabile e con largo consenso.

Vista da Kabul, la scelta eminentemente militare del presidente, pur con una sua logica,  appare pertanto insoddisfacente. E sembra essere soprattutto una resa alle logiche interne e pre-elettorali americane, prima ancora che una scelta ponderata, primo passo di una certa e sicura strategia. Quanto infatti può cambiare dal punto di vista anche solo militare la presenza di 37.000 soldati in più (sempre ammesso che la Nato nel suo complesso confermi le promesse)?

In termini reali ciò significa un aumento della forza operativa sul terreno (i combattenti) di circa 7-10.000 uomini. Troppo pochi per un’estensione del controllo territoriale, e non molti nemmeno per dare una spallata nelle aree dove McChrystal vuole concentrare il suo operato: prevalentemente, sembra di capire, nei grandi centri delle regioni di Kandahar ed Helmand e lungo le maggiori direttrici viarie. Queste ultime sono oggi del tutto fuori controllo, e hanno obbligato persino gli americani – attraverso l’intermediazione di  alcune chiacchierate società afgane – a venire a patti con la variegata compagine insurrezionale, che comprende talebani di varie filiere, signorotti della guerra che amministrano enclave  territoriali, banditi più o meno organizzati.

Il “civilian surge”, quasi sparito nel discorso del presidente, resta un’opzione a mezza bocca degli europei, troppo preoccupati della sicurezza e troppo attenti a quel che dice l’alleato americani per pronunciare verbo. Del resto, l’Europa sembra procedere in ordine sparso. I britannici hanno convocato quasi d’imperio la conferenza di Londra di gennaio nella quale, a quanto è dato capire, si parlerà soprattutto di esercito afgano. I francesi sembrano propensi a mantenere un profilo basso. Gli italiani hanno rilanciato l’idea di una conferenza internazionale da tenersi a Kabul ma non è chiaro su quali argomenti. Un piano di ricostruzione del paese, come fu abbozzato dal “Compact” di  Londra e ribadito a Parigi l’anno scorso, avrebbe in realtà bisogno di un nuovo assessment: ma, tra la donors fatigue e i conti con le opinioni pubbliche interne, ogni paese appare propenso a  investire nelle sole aree dov’è presente col suo contingente militare, abbandonando il resto del paese al suo destino o nelle mani di quel che resta delle Nazioni Unite. D’altro canto, le stesse Nazioni Unite danno l’impressione – dopo l’attentato del 28 ottobre alla Guest House di Kabul – di essere in piena ritirata, seppur con l’importante eccezione dell’Ufficio per gli affari umanitari – Ocha – tornato ad aprire i suoi uffici in gennaio dopo sei anni di assenza. L’ONU avrebbe comunque congelato due terzi dei suoi funzionari internazionali e si ventila addirittura uno spostamento degli uffici a Dubai.

Il quadro è insomma a tinte fosche. Un sondaggio recente fa dire a sette afgani su dieci che le principali cause del conflitto sono povertà e disoccupazione; ed è evidente una sempre maggior apertura alla trattativa anche di coloro che erano contrarissimi a negoziare con la guerriglia. Quello della riconciliazione nazionale e del reintegro dei combattenti è peraltro il primo punto citato da Karzai nel discorso di insediamento del 19 novembre (nel quale ha messo all’ultimo posto, lui pure, le politiche sociali). Ma il governo, che ancora non ha un nuovo esecutivo, appare debole, privo di supporto interno e internazionale. Non solo per via del drammatico esito elettorale, ma per l’endemico problema della corruzione, assunto a principale temine di valutazione della nuova scommessa Karzai (che ha promesso sul tema l’ennesima conferenza).

Futuro incerto dunque, in una sorta di sfilacciamento dell’iniziativa politica che attraversa una fase di stanca e che, al momento, sembra accontentarsi della scelta eminentemente militare di Barack Obama. Una scelta che, al contempo, contiene il segnale in cui tutti forse speravano: 18 mesi di tempo e poi via. Verso un ritiro dignitoso dei soldati, sperando che tutto vada per il meglio.

Tempistica e indirizzo, più che annunciare una “sindrome Vietnam”, sembrano ricalcare i passi compiuti dall’URSS quando, arrivata al picco di una presenza di  150.000 soldati, al nono anno di guerra iniziò a prefigurare il ritiro puntando sulla tenuta del governo di Najibullah e sull’iniziativa di riconciliazione nazionale (fallita) promossa dall’ultimo presidente filosovietico. Un epilogo che nessuno oggi a Kabul vuole assimilare a quanto invece gli  assomiglia sempre più tragicamente: la vigilia di un ritorno al passato. Era il 1989 quando, dopo dieci anni di guerra, i sovietici attraversarono l’Amu Darya per andarsene con la coda tra le gambe.