international analysis and commentary

Modello teutonico o sacrificio tedesco

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Quasi due anni dopo lo scoppio dell’eurocrisi, l’establishment della Vecchia Europa continua ad interrogarsi sulla direzione presa dalla locomotiva tedesca. Molti hanno l’impressione che il direttorio franco-tedesco abbia preferito cambiamenti di facciata nell’architettura delle istituzioni comunitarie piuttosto che una ben più rischiosa assunzione di responsabilità per affrontare il problema di fondo: gli squilibri derivanti dalla chiusura di diciassette economie diverse in un’unica area monetaria.

Allo stato attuale, le uniche vere soluzioni sul tavolo sono due: da una parte la disintegrazione dell’Eurozona con una spaccatura tra paesi mediterranei e paesi nordeuropei, dall’altra un ingresso deciso in una Transferunion, nella quale ciascuno Stato membro possa essere chiamato a rispondere per i debiti di un altro. Entrambe le soluzioni sono sempre state definite ipotesi pericolose o impraticabili dalla signora Merkel, un tempo motore convinto dell’integrazione e oggi incerto amministratore dell’esistente. Eppure la tanto criticata irresolutezza della Cancelliera non è solo un tratto distintivo del suo particolare stile governativo. Verosimilmente, qualunque politico tedesco al suo posto avrebbe cercato di guadagnare tempo, ricorrendo ad aumenti progressivi della dotazione del fondo di stabilità ancorati a diktat sul risanamento dei bilanci fuori controllo.

E questo per la semplice ragione che è ormai in gioco l’essenza stessa della Repubblica federale. Si è infatti affermata una nuova forma di orgoglio teutonico, per quanto lontano dai richiami alla nazione e al popolo tipici di un’epoca buia ormai sorpassata in cui si parlava di Lebensraum, lo “spazio vitale”. Un patriottismo dal sapore giuridico legato alla popolarità del Grundgesetz e della Corte Costituzionale di Karlsruhe, ma anche con precisi tratti economici basati sull’esperienza del dopoguerra: la crescita prodigiosa degli anni cinquanta (Wirtschaftswunder), la stabilità dei prezzi garantita dalla Bundesbank, fino a giungere al più recente orgoglio per la vocazione di paese esportatore nei paesi emergenti. Ora, sia la possibile disintegrazione dell’Euroarea, sia l’eventuale fusione tedesca in un grande edificio costituzionale europeo, rischierebbero di minare le fondamenta della Repubblica Federale, ancora alle prese con i postumi della riunificazione interna degli anni ‘90. Abbandonare l’euro significherebbe probabilmente deprimere l’export, oltre a mettere a rischio il mercato comune, mentre aderire alla tesi di una maggior integrazione politica e fiscale significherebbe applicare un modello di trasferimenti automatici di denaro dal centro alla periferia che è contrario allo spirito del Grundgesetz.

Negli ultimi giorni si è poi affacciato un altro spauracchio: quello della monetizzazione del debito tramite la Bce; eventualmente anche senza alcuna sterilizzazione dei propri acquisti, ovvero con un aumento della base monetaria. In un editoriale pubblicato l’11 novembre, il quotidiano economico Handelsblatt è sceso ufficialmente in campo per questa soluzione, che alla lunga potrebbe però provocare maggiore inflazione. Finora nessun partito rappresentato al Bundestag si è mai sognato di mettere in dubbio l’indipendenza dell’Eurotower in maniera così radicale. Al contrario, dopo i richiami del Presidente della Repubblica Christian Wulff (Cdu), è stata l’Spd a mettere nero su bianco nella risoluzione parlamentare del 26 ottobre scorso la necessità che l’istituto di Francoforte non si avventuri in nuove operazioni di acquisto dei bond sovrani, ancorché esse si svolgano sul mercato secondario. D’altra parte, il rigoroso rispetto dei principi che presiedono alla vita economica e finanziaria non è che il riflesso di quella dottrina di politica economica che in Germania va sotto il nome di Ordnungspolitik: termine coniato da Walter Eucken, fondatore della scuola di economia “ordoliberale” di Friburgo, l’Ordnungspolitik è il metro con cui si suole valutare ogni singola misura economica approvata dal Parlamento. Una volta fissati una serie di principi astratti e generali, il mercato deve essere lasciato libero di svilupparsi senza interferenze statali di alcun genere: questa è la base ideologica cui si deve il successo economico tedesco del dopoguerra e dalla quale, ancora oggi, ben pochi economisti vogliono prendere le distanze. In particolare, il fantasma dell’inflazione weimariana ha imposto ai tedeschi di attribuire alla banca centrale – prima la Bundesbank, poi la Bce – l’unico compito di salvaguardare la stabilità dei prezzi e di non ingerirsi nella politica di bilancio degli Stati membri.

Forse il modello può oggi considerarsi sorpassato, e una buona dose di pragmatismo lascia pensare che la monetizzazione del debito insieme ad un ulteriore abbassamento dei tassi di interesse sia l’unico mezzo per contrastare l’attuale recessione e gli inquietanti segnali di stretta creditizia. Resta il fatto che proporre una di queste alternative equivale a chiedere un enorme sacrificio al sistema politico ed economico tedesco, che dopo decenni tormentati pare finalmente aver trovato un suo equilibrio interno. Sia che si punti agli “Stati Uniti d’Europa” (come hanno fatto sinora alcuni esponenti della Cdu) sia che si parli di monetizzazione del debito o di spaccatura dell’Eurozona, bisogna insomma comprendere che quel si chiede è che la Germania rinunci a parte della sua identità. Proseguire sulla via dell’imposizione top-down di piani di riduzione del debito estero e del debito pubblico, d’altra parte,  rischia di non sortire altro effetto se non quello di alimentare rabbia e livore contro un direttorio franco-tedesco autoproclamatosi primo della classe. Il fallimento, in buona sostanza, di quel modello di cooperazione europea ispirato dai Padri Costituenti con i Trattati di Roma.