I rivolgimenti politici in atto in diversi Paesi del Medio Oriente hanno forti radici locali – dunque specifiche – ma producono anche dinamiche regionali – dunque comuni.
La Tunisia, dopo aver acceso la miccia delle rivolte di piazza alla fine del 2010, ha avuto il suo passaggio elettorale che ha premiato (come largamente previsto) una forza islamista, il cui progetto politico andrà ora precisato e verificato all’atto pratico.
La Libia sta faticosamente elaborando le prime ipotesi di costruzione di uno Stato moderno, senza esperienza e con tutte le ferite aperte dalle convulsioni che hanno portato alla fine di Gheddafi. Non dimentichiamo, intanto, che la NATO ha una parziale responsabilità per i prossimi sviluppi nel paese, che ci piaccia o no.
L’Egitto ha appena inaugurato il suo lungo e tortuoso percorso elettorale (che dovrebbe terminare a marzo 2012): va dunque seguito in un’ottica di medio periodo piuttosto che attraverso manifestazioni di piazza e reazioni del regime transitorio che si susseguono di giorno in giorno. E’ presto per dire se vi saranno le condizioni per un vero pluralismo politico e culturale, che garantisca in particolare le tutele della minoranza copta. Ed è ancora più prematuro trarre conclusioni sulla politica estera del Cairo quando è soltanto iniziato un processo costituzionale e di creazione di un sistema partitico.
La Siria è ormai virtualmente incendiata da una guerra civile e sotto una sorta di assedio diplomatico ed economico internazionale – per le pressioni non soltanto occidentali ma anche della Lega Araba e della Turchia affinché la famiglia Assad lasci il potere. La struttura su cui poggia il regime è peculiare per il fatto che una ridotta minoranza ben definita – quella Alawita – domina le posizioni-chiave, il che probabilmente rende quasi impossibile un compromesso. In ogni caso, l’esito dello scontro in atto all’interno del paese ha evidenti ramificazioni esterne: sulla Turchia, soprattutto per la questione curda; sull’Iraq, per lo stesso motivo; sull’Iran, che ha a Damasco l’unico alleato statuale; sul Libano, per il ruolo storico che vi ha svolto la Siria; su Israele, per uno dei lati (quello del Golan) del puzzle arabo lungo i suoi confini. Insomma, l’effetto contagio non riguarda solo le rivolte ma anche la fase successiva, cioè gli effetti delle possibili transizioni politiche (relativamente pacifiche o violente che siano).
C’è poi il caso dell’Iran: è il paese che per primo ha sperimentato la capacità di studenti e professionisti di mettersi in rete e organizzare proteste massicce nonostante una repressione capillare e feroce. Il movimento “verde” iraniano non ha avuto finora successo, ma resta una minaccia per il regime, e ha gli strumenti per capire quando il governo manipola gli istinti nazionalisti per distogliere l’attenzione dalla propria scarsa legittimità. In questo quadro dobbiamo leggere gli eventi di questi giorni, con l’attacco di una piccola folla all’ambasciata britannica (in cui sembra evidente la connivenza delle autorità) per protesta contro le nuove sanzioni a causa del programma nucleare. Qualunque sia la valutazione sui pro e i contro di una opzione militare che tuttora è “on the table” per l’amministrazione Obama (e ovviamente per Israele), è innegabile che l’eventuale superamento della soglia nucleare militare da parte di Teheran è un enorme problema regionale. Non si deve mai dimenticare che l’Iran è un osservato speciale per l’Arabia Saudita e le altre monarchie del Golfo, la Turchia, lo stesso Egitto: non è in gioco solo la questione della sicurezza di Israele ma il futuro equilibrio regionale, destinato a rimanere molto incerto per anni. Il programma nucleare pone dunque gravi rischi reali, ma è anche vero che dietro di esso si nascondono profonde crepe nell’establishment – in cui, paradossalmente, lo stesso presidente Ahmadinejad è un’espressione di ricambio generazionale. Sta soprattutto agli iraniani tentare altre strade per darsi un governo migliore, ma gli attori esterni devono fare le proprie scelte strategiche e di sicurezza sapendo che il sistema politico non è stabile né inattaccabile. Si tratta almeno di saper sfruttare le opportunità che dovessero presentarsi.
Intanto, cercando di restare lontano dalla luce dei riflettori internazionali, le monarchie del Golfo tessono la loro tela di rapporti economico-finanziari sperando di aver scampato il pericolo maggiore. In realtà, non si può davvero escludere che i loro strani sistemi sociali e di potere finiscano per scontrarsi con le tendenze del XXI secolo. In caso di forte instabilità in quei paesi, i mercati energetici – e a cascata l’intero settore delle commodity –sarebbero colpiti da un rialzo dei prezzi molto grave in una fase economica come quella attuale. La stabilità è un bene prezioso, ma non dobbiamo confondere l’analisi con gli auspici; dunque, nemmeno il Golfo è immune dalle spinte per il rinnovamento dei regimi politici.
Di fronte a questo mosaico molto variegato e potenzialmente ancora più esplosivo, è importante anzitutto mantenere un certo sangue freddo: le dinamiche locali e regionali sono stimolate in buona parte da attori nuovi e poco organizzati, con i quali si devono intanto stabilire rapporti per sondare intenzioni e interessi. Ciò vale senza dubbio anche per i movimenti islamisti in tutte le loro varianti, che dovranno comunque fare i conti con le richieste economiche delle rispettive opinioni pubbliche. Non potranno quindi chiudersi a riccio dopo aver proclamato l’applicazione, più o meno rigida, della legge coranica. La loro sfida con la modernità e la globalizzazione comincia, e non finisce, a quel punto.
Prudenza e lungimiranza sono tanto più necessarie perché le società civili del mondo arabo e islamico non sono esclusivamente “arabe” né esclusivamente “islamiche”, come dovremmo aver imparato dai tanti video e dalle tante chat room che hanno inondato il web dall’inizio del 2011. I nuovi co-protagonisti della politica mediorientale sono attivisti per i diritti civili, professionisti in cerca di opportunità economiche, artisti in cerca di sbocchi espressivi, e molto altro. Quello a cui stiamo assistendo è un diffuso e confuso fenomeno di sperimentazione – contrastato da forze conservatrici e autoritarie, ma probabilmente impossibile da sopprimere.
Manteniamo il sangue freddo, allora, e rispettiamo in pieno gli egiziani che in questi giorni abbiamo visto mettersi in fila per votare. Come i tunisini e prima ancora gli iracheni, hanno diritto a sperimentare.